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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 57 (Nuova Serie), giugno 2020

La Convenzione di settembre nella documentazione parlamentare

Nell'ambito dello "Speciale" del 2020, dedicato alla ricorrenza del 150° anniversario della breccia di Porta Pia, dopo i discorsi di Cavour pubblicati nel numero di febbraio 2020, nella seconda tappa i documenti parlamentari ci avevano guidato nel fotografare un passaggio delicato della storia diplomatica tra l'unità nazionale del 1861 e il suo compimento del 1970: una proposta di legge del 1861 per regolare i rapporti tra la Chiesa e lo Stato italiano, inviata a papa Pio IX, ma che non ebbe seguito.

In questo terzo appuntamento ci concentriamo invece su un altro episodio di storia diplomatica, coronato stavolta dal successo: la Convenzione del 15 settembre 1864 tra Italia e Francia (con cui quest'ultima ritirava da Roma le truppe - che lì erano rimaste dall'esperienza della Repubblica Romana del 1849 - in cambio dell'impegno italiano a non invadere lo Stato Pontificio) e le sue rilevanti conseguenze per la storia nazionale.

Anche in questa occasione ripercorreremo l'episodio attraverso gli Atti parlamentari e i documenti disponibili sui siti internet istituzionali, pubblicandone una trascrizione. Per un approfondimento sul tema, con particolare riferimento a quanto conservato presso l'Archivio storico del Senato, rinviamo al contributo di Elisabetta Lantero, La Convenzione di settembre nelle carte del Senato del Regno, "MemoriaWeb. Trimestrale dell'Archivio storico del Senato della Repubblica", settembre 2014, n. 7 (n.s.).

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Dopo i tentativi di conciliazione di Cavour e Rattazzi del 1961, seguiti da trattative avviate dal successivo Governo Ricasoli, è grazie al Gabinetto Minghetti che riprende il dialogo con l'imperatore Napoleone III sulla 'questione romana', anche in questo caso con l'intervento dell'ambasciatore italiano a Parigi, il cav. Costantino Nigra, già interpellato nel 1861 per trasmettere al governo francese l'infruttuosa proposta di Ricasoli. La riapertura delle interlocuzioni è adesso sollecitata dalle precarie condizioni di salute di papa Pio IX e dai connessi timori di ciò che potrebbe comportare un perdurante stazionamento di truppe francesi nello Stato Pontificio durante una vacanza del seggio apostolico.

Il 15 settembre 1864 a Parigi si arriva alla firma dell'accordo, a cui oltre a Nigra viene delegato il sen. marchese Gioacchino Pepoli, allora ministro plenipotenziario a Pietroburgo, e che aveva avuto parte nel negoziato. I cinque articoli di cui si compone il testo prevedono: l'impegno italiano a non attaccare - e all'occorrenza proteggere da attacchi - il territorio dello Stato Pontificio; l'impegno francese al ritiro, graduale ma entro l'arco di due anni, delle truppe poste a Roma a protezione del Pontefice; la rinuncia italiana a qualsiasi ostilità contro il costituendo esercito del Papa, con la sola eccezione di un eventuale attacco di questo al governo italiano; l'apertura di trattative perché l'Italia assuma parte dei debiti delle antiche province della Chiesa; la ratifica dell'accordo entro 15 giorni.

Il testo originale francese, col titolo Convention entre l'Italie et la France, è pubblicato, oltre che nella Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia del 7 ottobre 1864, n. 238, anche negli Atti del Parlamento Italiano (Documenti: Sessione del 1863-64 - dal 25 maggio 1863 al 16 maggio 1865 (VIII Legislatura): Raccolti e corredati di note e di documenti inediti da Galletti Giuseppe e Trompeo Paolo. Roma: Tipografia Eredi Botta, 1885, vol. 5, p. 3645-3646).

Tuttavia, la parte del patto destinata a suscitare più scalpore è in qualche modo esterna al testo della Convenzione e rappresenta una clamorosa novità rispetto ai precedenti progetti di conciliazione: infatti, un annesso Protocollo, siglato contestualmente alla Convenzione, vincola l'efficacia del patto al trasferimento della capitale del Regno entro sei mesi; un'ulteriore Dichiarazione del 3 ottobre stabilisce che i sei mesi possano decorrere dall'emanazione non di un decreto, bensì di una legge che definisca tale trasferimento, per coinvolgere il Parlamento italiano in una decisione di tale impatto per la vita del Paese. (La convocazione delle Camere, del resto, era stata sollecitata al Re dal Ministro dell'Interno Giovanni Lanza già con una relazione del 19 settembre).

La clausola del Protocollo, voluta dalla Francia per togliere vigore all'argomento della mancata centralità della città sabauda rispetto a un Regno che ormai si estendeva fino al sud della penisola, e così allontanare il timore di quell'attacco a Roma che appunto le truppe francesi avrebbero dovuto scongiurare, divide il Parlamento e suscita tra molti italiani il sospetto che si voglia rinunciare definitivamente alla 'causa' di Roma capitale. Ne nascono scontri armati a Torino, il 21 e 22 settembre, che causano morti e feriti e producono inchieste sia del Municipio che presso la Camera dei deputati (dove nella tornata del 24 ottobre viene istituita una Commissione monocamerale); il governo Minghetti cade il 28 settembre.

D'altra parte non mancano, né in Parlamento né presso larghe fasce della popolazione (in particolare nei territori ex pontifici annessi nel 1860), voci favorevoli al trasferimento della capitale, visto come momento di passaggio e opportunità di allontanamento della presenza francese nella penisola. La scelta della nuova capitale cade su Firenze, illustre per la sua storia e simbolicamente percepita quale fonte dell'unità linguistica nazionale, ma anche città più centrale, utile tappa di approssimazione geografica alla capitale "naturale", «acclamata dall'opinione nazionale» e indicata dal Parlamento già dal voto del deputato Bon Compagni alla Camera dei deputati, il 27 marzo 1861: Roma.

Il dibattito parlamentare si accende dal 24 ottobre 1864 quando - dopo un aggiornamento di tre settimane legato alla crisi di governo - il nuovo primo ministro Alfonso Ferrero La Marmora presenta alla Camera la Convenzione del 15 settembre e il disegno di legge Spesa per il trasferimento della Capitale a Firenze (C. 265, 256-A, 265-B, 265-C, relatore l'on. Antonio Mosca). Il dibattito tra i deputati dura dal 7 al 19 novembre; il 22 novembre il disegno di legge arriva in Senato col titolo Trasferimento della Capitale del Regno a Firenze (S. 147 e S. 147-bis, relatore il sen. Paolo Emilio Imbriani) ed è discusso dal 29 novembre al 9 dicembre 1864.

Il testo del disegno di legge (che nella sua versione a stampa non è ancora digitalizzato online) consta di soli due brevi articoli: prevede che «La capitale del Regno sarà trasferita a Firenze entro sei mesi dalla presente legge» (Art. 1) e uno stanziamento di 7 milioni di lire da aprirsi in apposito capitolo «nella parte straordinaria del bilancio dell'Interno», con speciale incarico ai ministri dell'Interno, delle Finanze e dei Lavori pubblici per l'esecuzione della legge (Art. 2). L'esito è ben noto: Firenze diventa capitale del Regno d'Italia per circa sei anni, dal 3 febbraio 1865 al 30 giugno 1871 (Legge 11 dicembre 1864, n. 2032).

Trascriviamo qui il testo pressoché integrale della relazione che accompagna la proposta di legge. La minuta è custodita presso l'Archivio storico del Senato (ASSR, Fondo Segreteria del Senato del Regno, serie Progetti di legge, poi disegni di legge) e ne è stata messa in rete la scansione, che include la minuta della proposta stessa e di una seconda relazione, datata 26 novembre 1864, a conclusione dell'attività dell'Ufficio centrale composto, oltre che da Imbriani, dai senatori Diodato Pallieri, Giacomo Durando, Luigi Chiesi, Francesco Sauli. Nello stesso fascicolo si trovano i verbali sommari dell'Ufficio centrale, mentre i sommari dei singoli Uffici sono nei Processi verbali, 1863-1866, 1-5.

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Signori,

dopo la memoranda discussione testè compiutasi nell'altro recinto parlamentare, anziché un ampio svolgimento de' motivi che suffragano la proposta di legge che vi è presentata, reputo opportuno di riassumerne i principali, chiarendone insieme la preponderanza sulle contrapposte obbiezioni. [...]

Parecchi infatti di coloro che combatterono la proposta, cadono nell'errore di riguardare il trasferimento della capitale, come un fatto isolato e disgiunto, mentre invece è connesso ed inscindibile dalla Convenzione del 15 settembre [...].

Considerato da quest'unico aspetto, il trasporto della capitale si presenta facilmente come un nuovo disordine nell'amministrazione che appena cominciava a ordinarsi; come un nuovo dissesto nella finanza cui è sopramodo urgente di riparare; in fine, come un grave danno politico, in quanto parrebbe separare la Dinastia dalle sue radici, e la causa della indipendenza, da quel territorio ch'ebbe il primo la fortuna ed il vanto di propugnarla.

Ma riunite i due termini, la convenzione ed il trasporto della capitale; e tenete insieme il debito conto del voto generale degl'italiani favorevole al trasporto stesso; e tosto gl'inconvenienti scemano; i vantaggi della proposta avanzano di molto i danni che se ne temono. E così, mentre il trasporto potrà essere occasione di fare un altro gran passo in quell'opera di tanto momento per la vita nazionale, che è l'unificazione delle leggi; si può anche far stima, che la maggiore centralità di Firenze renderà meno grave la bisogna del riordinamento amministrativo; e che il maggiore accordo degl'italiani renderà più facile il trovar de' compensi a' sacrifici che si dovranno fare.

Ma ciò che supera di gran lunga ogni altro vantaggio, è il felice avviamento che l'esecuzione della proposta legge deve imprimere allo scioglimento della quistione Romana [sic].

Due infatti, non una sola, sono veramente le questioni da sciogliere circa la nostra nazionale indipendenza. Imperoché anche a Roma, noi stavamo a fronte dell'intervento armato di Francia in favore del principato temporale.

Oggi, con la Convenzione, si è fermato il non-intervento da quella parte; e la quistione dell'indipendenza non sarà più che una sola per noi.

Con tale risultato, la dinastia si acquista alla riconoscenza nazionale un nuovo titolo, un titolo tanto più grande quanto ha più dovuto costare al suo cuore. Ne è perciò vero, ch'ella si separi dalle sue primordiali radici. No: ella non fa che gittarne [sic] delle nuove, e del pari profonde, in tutto il suolo d'Italia.

Dicasi lo stesso del Piemonte, al quale nulla tornerà certamente più gradito del veder progredire, anche a prezzo de' suoi propri sacrifici, la causa che ha saputo iniziare; e sul cui valore si può far certo assegnamento che a novissimi cimenti della patria non sarà certamente minore che ai primi.

Ciò che ha potuto turbare, per un momento, questo paese, e, particolarmente la generosa città di Torino, più assai del danno pe' suoi legittimi interessi; oltre l'inatteso annunzio, fu il pensiero che il trasferimento della capitale arguisse una rinunzia alle nostre aspirazioni e al compimento della unità nazionale.

Or bene, tutte le dichiarazioni che abbiam già fatte in Parlamento, dissipano ogni sospetto che colla convenzione si rinunci ad alcuna delle nazionali aspirazioni [...]: noi non abbiamo rinunziato ad intervenirvi che con la forza. Ma tale appunto è sempre stato il concetto del Parlamento, dal giorno che questa grande quistione gli fu presentata dall'illustre Conte di Cavour; né altro avrebbe potuto mai essere, trattandosi d'una quistione affatto morale, che quindi altrimenti non può risolversi se non coi mezzi morali della civiltà e del progresso.

Rassicurata a tale riguardo, questa città benemerita, cui incombe pur troppo il maggior danno del trasferimento, ha saputo assistere alla recente discussione dell'intera assemblea, con una dignità ed una calma, che non si è pure un istante mentita, e di cui le renderà grande onore l'istoria.

Rimane, che questo Illustre Consesso confermi la proposta stessa che noi gli presentiamo, con l'autorità di un suffragio non dissimile da quello dei Deputati della nazione.

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