Il Presidente: Discorsi

C'è ancora la solidarietà? L'impegno di ciascuno nel sociale e nella politica

Discorso pronunciato a Roma in occasione del convegno organizzato dalla CISL

4 Dicembre 2006

Care amiche, cari amici,
consentitemi di introdurre queste brevi considerazioni con due ringraziamenti ai dirigenti della Cisl del Lazio e nazionale: per avermi invitato a partecipare a questa iniziativa e, soprattutto, per l'idea del convegno.

Idea ambiziosa e, direi, coraggiosa già dall'interrogativo con cui si offre alla nostra riflessione. E' bene che oggi ci interroghiamo sulla "sopravvivenza" della "solidarietà" e, ancor prima, è bene che torniamo a fare uso di questa parola caduta un po' in disuso nel dibattito contemporaneo. In una società che troppo spesso sembra dimenticarsi dell'essenziale intenta com'è a inseguire l'istantaneo trascurando ciò che permane sia pure nella necessaria trasformazione, è giusto chiederci se la solidarietà esista ancora e come la si possa rianimare e ripensare nelle forme nuove che il cambiamento reclama.

Questo è un tempo di grandi opportunità, purché non lo si viva solo come minaccia ed emergenza, ma come il farsi doloroso della novità che reclama l'ascolto del segno dei tempi, delle inquietudini che animano la storia. Del resto nei momenti di passaggio, nelle fasi in cui la storia sembra fare dei giri viziosi oppure smarrire la sua presunta linearità, non si può che tornare ai principi fondamentali. Non per rimpiangere ma per capire.

Ragionando dell'essenziale riscopriamo la forza dei principi, la loro capacità di guidare e di fornire un'identità. So bene che il compito è arduo. Soprattutto quando parliamo di un agire solidale, del suo fondamento etico, delle sue manifestazioni concrete. Come l'uso irragionevole e non equilibrato delle risorse ambientali provoca una catastrofe se non vi si pone rimedio, così, il venir meno del senso di appartenenza alla comune condizione umana e la pietas che ne deriva, espone la nostra comunità ad un tracollo.

Si pensa sempre subito alla solidarietà con due figure tipiche della nostra eredità occidentale. La prima è quella del soccorso. L'uomo ferito, lacerato, il vinto della vita e del suo meccanismo produttivo e l'uomo buono, laico o credente, purché mosso da una consapevole percezione della necessaria identificazione con l'altro, che si ferma, si china sul sofferente, gli dà sollievo e lo cura. E' la figura del samaritano o del soccorso.

L'uomo che provvede all'altro uomo è la radice della moderna giustizia sociale. Il modello rivolto a prevenire il rischio dell'indigenza, a prestare soccorso, a fornire strumenti di elevazione culturale e sociale, la previdenza, la sanità l'assicurazione contro gli infortuni, sono, nell'epoca della produzione industriale la grande conquista delle organizzazioni dei lavoratori di ispirazione cristiana o socialista o liberale.

Poi è venuta l'organizzazione dello stato sociale, le sue istituzioni, gli enti, la diffusione di presidi sul territorio, la partecipazione dei sindacati. Ma le cose cambiano, i dati non si possono ignorare. E le modifiche necessarie al sistema del welfare fanno parte di un interesse concreto dell'economia e della politica per realizzare meglio il bene comune. Non si tratta di ridurre diritti, ma di realizzare un equilibrio giusto e durevole. Un sistema sostenibile che non premi l'egoismo di gruppo o di corporazione, ma guardi all'oggetto della cura affidata al pubblico: far crescere la disponibilità alla tutela dei deboli, aiutare i giovani a crescere, consentire ad ogni persona la dignità che viene dal lavoro retribuito e dalla disponibilità di reddito per l'autosufficienza. Questioni enormi che hanno bisogno di pazienza e prudenza, ma anche di coraggio e di decisioni non rinviabili.

In questi mesi dovremo lavorare per riforme forti e condivise, per spostare risorse a sostegno dell'assistenza ai disoccupati, ai giovani, alle famiglie. Ma guai se pensassimo solo ad una ridistribuzione della ricchezza esistente, che è ancora largamente inferiore a quella destinata a questi settori dai grandi stati europei.

Dobbiamo tornare a far crescere la ricchezza comune aumentando la produttività e coinvolgendo seriamente le nuove risorse della sussidiarietà. C'è un memorandum per le riforme e c'è soprattutto una necessità non rinviabile. Non voglio entrare nel merito, come Presidente del Senato, ma l'esperienza che ho fatto insieme a voi mi dice che il momento di fare riforme severe e giuste è questo. Non possiamo più rinviare le decisioni e non possiamo più accumulare in capo alle nuove generazioni pesi insostenibili.

Le riforme si tengono tutte fra loro, ma c'è bisogno di cominciare dall'essenziale. Del resto anche la seconda figura della solidarietà - quella dell'uomo capace di risolvere i problemi - chiama in causa le nostre capacità di invenzione e di sperimentazione di nuovi scenari. La crescente dimensione della globalizzazione come oltrepassamento delle soglie nazionali, la disuguaglianza insopportabile e la ricerca di una vita migliore, ci portano in casa il dramma di tanti che fuggono dalla guerra e dalla miseria.

Come nella Populorum Progressio il nuovo nome della pace è lo sviluppo, così nella vita sociale il lavoro è il fondamento della effettività del diritto. Il Lavoro che fonda la Repubblica è esso stesso la condizione per potere adempiere ai doveri di solidarietà. Senza lavoro, senza ricchezza prodotta con fatica ma anche con la gioia ritrovata della dignità, non c'è pane né per il residente, né per lo straniero, né per i giovani, né per gli anziani.

Dovere come fondamento dei diritti, gusto della libertà come difesa da ogni egoismo e da ogni chiusura corporativa. Tornano in mente le parole profetiche di Moro sulla necessità di una nuova stagione di doveri che ancora deve rinascere, ma che chiede a ciascuno di noi un supplemento di disponibilità, una ragione di impegno, la chiara visione dell'interesse generale. Lo dico per la politica cui compete in primo luogo questa responsabilità straordinaria. Perché se tutti i cittadini hanno il dover di esser fedeli alla Repubblica e di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi, c'è un dovere speciale per quei cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche.

Dobbiamo in altri termini, riscoprire la centralità dell'impegno per la rappresentanza, sia politica che sociale. Rappresentare significa scegliere, correre il rischio di un consenso che non sia semplice accondiscendenza, ma visione, proposta e disegno. Bisogna farlo nel sostegno alla qualità della vita comune. E se, per far questo bisogna avere risorse, senza paura di scontentare gruppi particolari, ma attenti alle vere esigenze del Paese, bisogna incrementare la produttività, aumentare la torta, ricercare mercati e prodotti in grado di tenere il mercato. Così l'efficienza non è più questione interna al mondo dell'egoismo produttivo, ma diventa essa stesa componente della solidarietà.

Insomma, poiché nessun pasto è gratis, se si vuole giustizia ed equità, ci vuole uno stato efficiente che si faccia pagare il giusto, che reclami i doveri senza i quali la stagione di diritti diventa effimera. E ci vuole una società vivace e produttiva. Senza troppi lacci burocratici. La solidarietà comincia non dopo che l'egoismo ha prodotto i suoi frutti di disuguaglianza e mortificazione, ma all'interno stesso della dimensione produttiva secondo una antica intuizione della Cisl che ha tradotto questa aspirazione col termine di democrazia economica. La partecipazione responsabile alla creazione della ricchezza diviene un dovere se ha come meta la crescita delle risorse destinabili alla riduzione dell'esclusione, alla serenità della vecchiaia, al riparo dall'insidia dell'incertezza e della malattia.

Sanità, previdenza, educazione, ricerca e sostegno ai deboli non sono opzioni rinunciabili, ma divengono alternative reali solo se il paese si rimette in marcia, se tutti cooperano liberamente alla costruzione della ricchezza comune. Questo monito ci viene dai Padri costituenti, ma è ancor più antico. Per molti di noi questo è il cuore dell'insegnamento sociale della Chiesa.

Care amiche, cari amici,
dobbiamo lavorare, ciascuno e tutti, alla costruzione di un mondo in cui non esista solo la folla solitaria, ma una vera comunità. Che superi i fanatismi, gli integralismi, la pretesa di fare la volontà di Dio, che Dio lo voglia o no. Insomma una società accogliente e responsabile, in cui la libertà sia come un aratro che lavora una terra feconda e che non si rompe di fronte all'aridità, alla secchezza, alla pietra dura delle pretese e delle prepotenze.
Grazie e buon lavoro.



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