Il Presidente: Discorsi

VI Congresso Mondiale della Pastorale per i Migranti e i Rifugiati

9 Novembre 2009

Sono davvero lieto di partecipare al VI Congresso Mondiale per i Migranti e Rifugiati, e desidero rivolgere un saluto cordiale al Presidente, al Segretario, ai Membri e ai Consultori del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, alle Autorità, e a tutti i presenti.
Sul tema dell'immigrazione si è talvolta utilizzato lo strumento improprio della polemica politica, tra opposti schieramenti e anche all'interno degli stessi partiti, per rimarcare più gli elementi di contrapposizione, che i punti di possibile convergenza e condivisione.
Non fare del tema dell'immigrazione solo un'occasione di visibilità politica significa innanzitutto riconoscere che sicurezza e integrazione, legalità e accoglienza, diritto e giustizia sono dimensioni intrecciate e richiedono la ricerca generosa di un equilibrio ragionevole.
Condizione necessaria per una efficace integrazione è il raggiungimento di un livello adeguato di sicurezza.
Condizione indispensabile perché i cittadini si sentano sicuri è la garanzia che la giusta accoglienza dello straniero non si traduca in abbandono della propria storia, della propria tradizione, del proprio patrimonio culturale.

La questione dell'immigrazione se ridotta a polemica tra chi è più attento ai profili della sicurezza e chi è più sensibile all'integrazione, oppure, tra chi propone esclusivamente un decalogo di doveri e chi antepone una tavola di soli diritti, rischia di diventare una questione solo ideologica.
L'ideologia, dall'una e dall'altra parte, allontana dalle idee, strumentalizza le esigenze reali delle persone, per fini sostanzialmente estranei al bene comune.
L'immigrazione è invece davvero un tema serio, la potremmo definire una questione "etica" e allo stesso tempo una questione "culturale".
Dire che l'immigrazione è una questione etica significa riconoscere che l'incontro con l'altro, il diverso, non suggerisce semplicemente la domanda "chi è l'altro", ma anche l'interrogativo "chi sono io, chi siamo noi".
Dall'incontro con l'altro possono derivare due atteggiamenti opposti.
Da un lato, una accoglienza "facile" può tradire o nascondere un reale sentimento di indifferenza: chi siamo noi e chi sono loro non importa, intanto ognuno è arbitro esclusivo nell'essere quello che vuole. Un tale atteggiamento porta a ritenere le parole identità, radici comuni, eredità culturali come una sorta di retaggio del passato, un vocabolario vecchio e superato dalla storia.
Dall'altro lato, una accoglienza solo ad ostacoli può tradursi nella presunzione di considerarsi migliori di altri, con la conseguenza di preferire alla condivisione, l'imposizione di modelli ritenuti più avanzati.

Entrambi questi atteggiamenti partono dal fraintendimento dell'idea di "discriminazione".
Se si ritiene discriminatorio il crocifisso nei luoghi pubblici e, viceversa, nemmeno ci si interroga su cosa significhi, proprio di fronte ad una Chiesa, una preghiera comunitaria diversa dalla religione tradizionale del luogo, si potrebbe cadere in una stanchezza o pigrizia di pensiero, che tutti dobbiamo augurarci non diventi l'anticamera di una inerzia morale nella ricerca autentica dei valori posti alla base di un sereno sviluppo di tutte le comunità civili.
L'integrazione vera e non solo di facciata non è sinonimo di relativismo, ma di confronto tra identità.
Senza una propria identità non è praticabile alcun dialogo. Senza un significato non è possibile la parola.
L'immigrazione è questione etica e questione culturale perché i valori in cui credere non possono prescindere dal riconoscimento del senso profondo racchiuso nella vita dell'uomo.
Non un uomo astratto, una sorta di metafora, ma l'uomo reale, che vive nella quotidianità paure e speranze, bisogni e sicurezze, dubbi e certezze.
Il razzismo può nascondersi proprio laddove si vive in contesti di insicurezza e illegalità.
Sarebbe un errore sottovalutare la frustrazione e la solitudine che i nostri connazionali avvertono nell'approccio con l'immigrato.

Malessere, insofferenza, disagio, paura, possono esplodere in violenze anche se limitate nei confronti di chi viene nel nostro Paese e chiede di essere accettato.
Sono sentimenti seppure isolati che devono essere banditi con forza, con sdegno e non soltanto in chiave repressiva, ma infondendo negli italiani il convincimento che gli immigrati sono uomini come noi.
Di fronte ad accadimenti tanto più gravi quanto assolutamente sproporzionati, sfociati in insopportabili episodi che hanno messo a repentaglio la vita, ho voluto portare la mia personale solidarietà, nella piena consapevolezza che intolleranza e violenza non possono e non devono risiedere nel nostro Stato democratico.
Gli spazi devono invece aprirsi nel rispetto dovuto alla storia dei popoli e delle nazioni, alle tradizioni e alle radici spirituali, umane, culturali dei Paesi.
Una globalizzazione responsabile non può prescindere dal riconoscimento delle diversità, perché ogni omologazione rischia, nel tempo, di far emergere odi e steccati già abbattuti dalla storia.
Sicurezza e integrazione sono obiettivi giusti solo se interpretati attraverso la lente della reciprocità.
Chi accoglie non si può sentire svuotato della propria storia, ma arricchito nella sua identità da un incontro dove, sull'ostilità e sull'indifferenza, prevale il rispetto.
Il rispetto dell'amico, che riconosce nell'altro non un viandante, ma un compagno di viaggio al quale si deve una parola sincera e di verità.
Per queste ragioni non possiamo e non dobbiamo ritenere che il fenomeno dell'immigrazione alimenti la paura del diverso con timori ingiustificati.

Non possiamo e non dobbiamo allontanare i nostri fratelli immigrati e rifugiati considerandoli un problema che lo Stato deve risolvere solamente sotto il profilo dell'ordine pubblico e della sicurezza.
La solidarietà e l'integrazione saranno più solide se da parte degli immigrati saranno adottati comportamenti che diano concreta dimostrazione della loro reale volontà di osservare le leggi e le regole che governano il nostro Paese che li ospita: rispetto della legalità, delle nostre tradizioni, della nostra cultura.
E' un loro preciso dovere, un indispensabile presupposto per la civile convivenza, è volano per una piena e totale integrazione.
Noi italiani, in particolare, nell'approccio con questi individui, dobbiamo conservare vivo il ricordo dei nostri antenati, di cui è memoria nella recente istituzione del Museo Nazionale dell'Emigrazione.
La nostra gente, spinta dal bisogno, varcò le frontiere, per cercare condizioni di vita migliori in altri Paesi esteri.
Anche allora, come oggi, uomini e donne non solo del Sud, ma anche del Settentrione, affrontarono un percorso difficile e doloroso, sradicandosi dagli affetti, dalla propria terra, dalle proprie tradizioni, dalla propria lingua, alla ricerca di un destino migliore, affrontando l'incognito.
Il ricordo, allora, deve essere memoria e quindi continuità, attualità, disponibilità all'accoglienza, all'amicizia con chi vive la stessa solitudine che provarono molti nostri padri in terra straniera.
Memoria significa bandire ogni forma di razzismo, ogni sentimento di ostilità e tendere concretamente la mano a chi, proprio perché è venuto a vivere nel nostro Paese, lavora e contribuisce a sostenere l'economia della nostra terra.
Dimenticare tutto questo significa, inoltre, non fare tesoro dei principi contenuti nella nostra Carta Costituzionale e nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, che tutti indistintamente siamo chiamati ad osservare.

E in questo contesto non posso non ricordare il grande ruolo della Chiesa che da sempre ritiene che la solidarietà sia assistenza e tutela degli immigrati, affinché la dignità della persona non venga mai calpestata.
La Chiesa da sempre offre il suo contributo con costanza, con dedizione, con sacrificio.
Il mondo cattolico è divenuto struttura portante della solidarietà: penso al terziario, al volontariato, a tutte le associazioni che in silenzio ogni giorno, con grande amore e spirito di abnegazione, offrono ai nostri immigrati conforto e aiuto materiale.
Una splendida realtà a cui va il mio sentito e sincero grazie.
Questi principi di solidarietà, di accoglienza, di integrazione, trovano mirabile sintesi nella lettera enciclica di Benedetto XVI: "La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa. La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza".
Mi auguro che da questa importante iniziativa possa aprirsi un confronto libero e ampio, ed auguro sinceramente a tutti Voi un buon lavoro in queste intense giornate di dibattito che Vi attendono.
Vi ringrazio.



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