Il Presidente: Articoli

Convergenze sull'economia

Intervista pubblicata dal settimanale "Il Mondo"

21 Maggio 2010

di Enrico Romagna Manoja

Il Presidente del Senato, Renato Schifani, lancia il messaggio che maggioranza e opposizione debbano cercare azioni comuni e che la classe politica dia un segnale forte di partecipazione ai sacrifici chiesti agli italiani con la manovra.

L'accordo faticosamente raggiunto a Bruxelles per salvare l'euro dimostra che, quando si superano le divisioni tra Paesi, si riesce a ottenere risultati importanti in Europa. Non ritiene che questo possa rappresentare un esempio perché, in Italia, anche maggioranza e opposizione si mettano d`accordo per riforme condivise in un momento così difficile per l'economia mondiale?
Non c'è dubbio che vi sono momenti in cui l'interesse del Paese deve avere il sopravvento sulle pur legittime posizioni di parte. Ciò non significa, naturalmente, un accordo su tutto. Significa che, come mi sembra stia avvenendo per l'esame del decreto-legge che il Governo ha adottato per contribuire al salvataggio della Grecia, su alcuni passaggi importanti, di carattere economico e istituzionale, convergenze si debbano e si possano trovare.

L'Italia sembra aver retto meglio degli altri alla crisi ma ne uscirà anche più lentamente rispetto a molti partner europei. Secondo lei, che cosa bisogna fare per accelerare questa risalita dal fondo della recessione?
L'atteggiamento prudente e responsabile del Governo, in particolare del ministro dell'Economia, è stato apprezzato da tutti sia in sede nazionale che internazionale. Gli ultimi indicatori sulla produzione industriale ci permettono di affermare che, anche sotto questo profilo, il nostro Paese si sta comportando meglio di altri. Pensiamo, anche, alla quota di mercato sulle esportazioni mondiali. È vero che si è registrata una riduzione dovuta
a vari fattori tra cui l`emergere di nuovi e importanti Paesi concorrenti sulla scena globale, ma da un`analisi comparativa, che prende in considerazione i Paesi G6 (Stati
Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito,Francia, Italia) si evidenziano risultati più
positivi. Nel periodo 1995-2008, infatti, l'Italia è l'unico Paese dopo la Germania
ad aver incrementato la propria quota di esportazioni su tale gruppo di Paesi. E certamente
solo l'inizio di un cammino lungo e faticoso. Occorrono una serie di misure di aggiustamento e di razionalizzazione del nostro sistema, con l'obiettivo principale di contenere la spesa pubblica.

La crisi greca ha messo in evidenza come ci siano ormai due Europe, una economicamente forte e una con i conti pubblici più a rischio. Quello che manca è probabilmente un governo europeo dell'economia. Secondo lei è un'ipotesi realistica in un futuro vicino?
È un obiettivo al quale si può tendere, nel medio termine, senza, però, accelerazioni o improvvisazioni, poiché dobbiamo ricordare che sussistono significative eterogeneità e rigidità nel funzionamento dei mercati e delle economie europee.


Dissociandosi dal piano europeo, la Gran Bretagna ha dimostrato ancora una volta di voler mantenere un piede dentro e un piede fuori dall'Europa. Lei è tra quelli che sostengono «lasciamo gli inglesi fuori e andiamo avanti senza la perfida Albione»?
No. La Gran Bretagna è un partner essenziale per l'Unione Europea. Con il nuovo Governo inglese, le cui posizioni verso l'Europa sono ben note, dovremo rilanciare una riflessione che convinca tutti dell'utilità di un percorso comune in una fase in cui le economie si misurano ormai per aggregati continentali.


Condivide l'opinione secondo la quale l'Europa si è allargata troppo in fretta e secondo cui mettere insieme 27 Paesi così diversi è stata la causa dei tanti problemi esplosi negli ultimi tempi?
Probabilmente, con il senno del poi, una maggiore cautela sarebbe stata auspicabile. Ma è un processo ormai irreversibile che va guidato con pazienza e in modo costruttivo. Se le diversità di sviluppo economico portassero a diversità in campo istituzionale europeo, la partita sarebbe persa per tutti.

Le grandi riforme di cui si parla in questo momento in Italia riguardano temi sicuramente importanti come la giustizia e la riduzione dei costi della politica, mentre sembrano lasciare in secondo piano temi rilevantissimi per la vita degli italiani come la riduzione della pressione fiscale, le pensioni, gli ammortizzatori sociali. Non pensa che sarebbe il caso di considerare questo tipo di intervento come prioritario, possibilmente attraverso accordi bipartisan?
Non mi sono mai appassionato a classifiche su ciò che è più o meno prioritario nel campo delle riforme. Il Governo e le forze politiche, maggioranza e opposizione, si stanno misurando su temi diversi ma, a mio avviso, non separabili con un colpo di spada. Penso, per esempio, al tema del federalismo fiscale nel quale gli aspetti di politica economica, finanziaria e istituzionale sono connessi e indivisibili. È peraltro evidente che, in un momento di forte tensione economica, l'attenzione dei cittadini e delle forze politiche si accentri prevalentemente sui temi dello sviluppo e del lavoro. E su questi temi, certamente, convergenze tra le forze politiche possono essere cercate e, mi auguro, trovate.

L'unica grande riforma economica in vista è il federalismo fiscale. Il timore di molti è che i costi di questa rivoluzione possano rivelarsi troppo pesanti da sostenere e che possano mettere in crisi le regioni italiane meno ricche. Lei, che è anche siciliano, non nutre queste stesse preoccupazioni?
Ho sempre detto che il federalismo deve essere «solidale», cioè espressione delle autonomie locali e insieme garante della sussidiarietà e solidarietà. Lo ribadisco, perché lo sviluppo
del Mezzogiorno, uno sviluppo non assistenziale, clientelare e improduttivo, è condizione per la crescita complessiva dell`economia del nostro Paese, compresa, naturalmente, quella del
Nord. Basta, pertanto, a politiche per il Sud che non siano finalizzate a una crescita reale e non assistita. È un dovere e un impegno, in primo luogo, per la classe politica e tutti i cittadini del Mezzogiorno.

II ministro Calderoli ha proposto che anche i parlamentari, oltre a magistrati e manager, contribuiscano con un taglio del 5% alle loro retribuzioni alla manovra economica che il governo si appresta a varare...
È evidente che la classe politica deve dare un segnale forte di partecipazione al contributo che tutti saranno chiamati a dare in occasione della manovra economica. Sono certo che, d`intesa con la Presidenza della Camera, il segnale che i cittadini si attendono da noi sarà dato con chiarezza. Non è tanto una questione di incidenza percentuale sul complesso della manovra, ma di condivisione delle restrizioni con coloro che ci hanno eletto. Senza enfasi, ma in modo significativo.

Cosa può fare il Senato per contribuire alla riduzione dei costi della politica oltre, nell'ipotesi di riforma di cui da tempo si discute, alla riduzione del numero dei suoi componenti?
Già da diversi anni i miei predecessori nella carica di Presidente hanno avviato un processo di razionalizzazione e riduzione delle spese, che ha portato a una diminuzione nel trend di crescita. Questa via la sto seguendo anche in questa legislatura, con il conforto di tutto il Consiglio di presidenza. Si è parlato nei giorni scorsi anche dei costi dell'amministrazione. È un discorso da affrontare con serietà e fermezza, ma voglio qui ricordare un dato di fatto: al
31 dicembre dello scorso anno il numero dei dipendenti era sceso sotto i mille, dagli oltre 1.100 di qualche tempo fa. E anche quest'anno le spese complessive del Senato, come l'anno scorso, saranno a crescita zero, nonostante gli inevitabili automatismi di incremento di alcune voci: ciò in quanto si è intervenuti con misure di razionalizzazione e di riduzione delle spese. Continueremo ancora con maggiore incisività e forza su questo percorso. Lo dobbiamo ai cittadini e lo dobbiamo al Paese.

Le vicende di questi ultimi mesi hanno fatto emergere una preoccupante commistione tra politica e affari. C'è chi l'ha chiamata una nuova Tangentopoli. Cosa va fatto per stroncare questo andazzo che rischia di allontanare definitivamente i cittadini dalla politica?
Anche se non è una nuova Tangentopoli, si tratta di fenomeni di gravissimo malcostume che coinvolgono soggetti che esercitano pubbliche funzioni. Sul tema della corruzione l'intransigenza è per me un imperativo categorico. E deve esserlo per tutti. Il Governo ha già presentato un disegno di legge contro queste forme di corruzione. L'ho immediatamente deferito alle Commissioni competenti invitando contemporaneamente i Presidenti delle Commissioni ad accelerare al massimo l'iter del provvedimento. Lo chiedono con forza i cittadini; ne hanno ogni diritto; seguirò personalmente e con grande attenzione che questo loro diritto sia garantito.

Due anni fa i parlamentari italiani erano al centro delle polemiche sui privilegi della Casta. Ritiene che siano sufficienti gli interventi adottati per allontanare i sospetti di una classe politica che lavora poco ed è pagata tanto?
Camera e Senato, per la loro parte, hanno adottato e continuano ad adottare politiche di contenimento e di grande sobrietà nei loro bilanci. Questo è riconosciuto da tutti. Ma mi lasci dire che non è vero, nel modo più assoluto, che i parlamentari lavorino poco. Da diversi anni sono in politica, prima come semplice senatore, poi come capogruppo e oggi come presidente del Senato e vi assicuro che l'impegno dei miei colleghi nelle commissioni e nell'aula, è sempre stato ed è massimo. Ciò non esclude che si possono individuare ritmi di lavoro ancora più intensi, per consentire al Parlamento di fugare le perplessità di quei cittadini i quali dubitano della nostra produttività legislativa. La sintonia tra il pensiero dei cittadini e l'identità del Parlamento costituisce per me un principio e un valore fondamentale.

L'opposizione ha spesso criticato i lavori parlamentari sostenendo che Camera e Senato si siano ridotti a ratificare i decreti del governo e abbiano perso qualsiasi potere di legiferare. Lei è d'accordo?
È indubbio che, nel corso degli ultimi decenni, sia cambiato, non solo in Italia, il rapporto tra Esecutivo e Legislativo. Le ragioni sono molteplici e studiosi, giornalisti e politici le hanno ripetutamente analizzate. Le riforme istituzionali, da tutti volute, vogliono razionalizzare e meglio definire questo nuovo rapporto che vede, se mi si consente una valutazione assai sintetica, l'emergere di un ruolo dei Parlamenti maggiormente legato a quello di un controllo attento dell'operato del Governo. Senza escludere, naturalmente, un intervento forte sul piano della legislazione. I fenomeni che noi stiamo vedendo sono legati a questo processo: sarebbe inutile negarlo, mentre invece è necessario analizzarlo per valorizzare meglio, in questa nuova prospettiva, il luogo centrale della democrazia che non può non essere l'Aula parlamentare.

Ha senso parlare di governo di salvezza istituzionale come ha fatto Pier Ferdinando Casini? Insomma, di creare un esecutivo che vada da destra a sinistra?
Non credo. C'è un Governo in carica, una maggioranza espressa liberamente dagli
elettori che lo sostiene, delle proposte all'esame del Parlamento e delle forze politiche
sulle quali il confronto è aperto. C'è una opposizione che sta svolgendo in piena legittimità e con grande senso istituzionale il compito che la dialettica democratica le riserva. Possono esserci dei problemi all'interno degli schieramenti politici ma la scelta che gli elettori hanno fatto si pone all'interno delle nuove regole della democrazia maggioritaria che li vuole protagonisti di scelte di Governo che vanno mantenute in tutte le sedi, nazionali e locali.

In occasione delle recenti polemiche sul ruolo dei presidente della Camera all'interno del Pdl è stato più volte detto che un rappresentante delle istituzioni non può svolgere anche ruoli politici. Lei si sente di più un uomo delle istituzioni o un uomo politico?
Sono il presidente del Senato, e cerco di comportarmi in questo ruolo istituzionale e di garanzia nel solco di quanto tanti miei autorevoli predecessori hanno fatto. Ho certamente una storia politica che non rinnego in alcun modo e che, come tale, mi porta a guardare con attenzione sia pur dall`esterno, quanto accade nel mio partito, non dimenticando mai il mio ruolo di imparzialità e di garanzia.

Il ruolo decisivo che i liberaldemocratici hanno assunto nella formazione del nuovo governo inglese ha rilanciato le speranze di coloro che, in Italia, propongono la creazione di un terzo polo centrista che si incunei tra Pdl e Pd. Lei ha nostalgia di questa voglia di un ritorno della vecchia Dc?
La scelta bipolare mi sembra sia ormai entrata nel dna dei nostri concittadini che vogliono poter decidere tra proposte politiche chiare e alternative.

Quanto pesa per lei essere un politico siciliano in un momento in cui l'economia dell'isola sta vivendo una crisi forse ancora più forte di quella nazionale proprio nel momento in cui, politicamente, la sua regione sta attraversando forti tensioni che investono la maggioranza?
Anche qui mi consenta di fare riferimento a quanto ho detto prima. La crisi economica e sociale del Mezzogiorno, e in particolare quella della mia terra, parte da lontano e non si può più assolutamente affrontare con misure assistenziali o clientelari. Va rilanciata l'economia reale, quella capace di incrementare occupazione, ricchezza e sviluppo. Va inoltre meglio selezionata la spesa pubblica al fine di renderla produttiva, concentrandola, tra l'altro, su
obiettivi strategici primari e non polverizzandola su micro interventi.















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