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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 60 (Nuova Serie), dicembre 2020

La storia delle istituzioni: una chiave di lettura / Guido Melis

Al commiato dal suo servizio attivo, Guido Melis, dal 1999 ordinario di Storia delle istituzioni politiche e di storia dell'amministrazione pubblica presso l'Università di Roma "La Sapienza", già titolare di cattedre presso le università di Sassari e di Siena e, dal 1996 al 1999, presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione, riflette sulla disciplina a cui ha dedicato cinquant'anni di impegno intellettuale e accademico, radunando la memoria del proprio itinerario attraverso di essa in un libro edito quest'anno da Carocci col titolo La storia delle istituzioni: una chiave di lettura (febbraio 2020; 195 pagine).

Si tratta, come il titolo richiama con ambivalenza, di un viaggio nella storia degli 'studi' e di una indagine su ciò che ne costituisce l'oggetto; ma anche, come il sottotitolo chiarisce, della 'visione' di una disciplina e della sua materia prima, che per Guido Melis si affermano come reali in quanto agite e, quindi, scritte dal di dentro. Con paradigmatica specularità, dunque, istituzioni e disciplina che le investiga (un'istituzione anch'essa in senso lato) si rappresentano con verità nel loro farsi più profondo, nel vissuto che le attraversa al di sotto della ufficialità definitoria, nella loro esperienza concreta, nell'apertura reticolare delle relazioni non codificate che danno loro corpo e finiscono per strutturarle. Così, tra memoria personale e storiografia, Guido Melis, che della storia della disciplina è uno dei protagonisti, interprete che non solo l'ha osservata, da testimone oculare, ma che la ha anche mossa verso consapevolezze spesso audaci, presenta in otto densi e affascinanti capitoli quanto si agita al di sotto di una definizione ministeriale, intrecciando a travagliate questioni identitarie dibattute sul terreno dei contenuti e dei campi, degli strumenti e del metodo, mappature di correnti di pensiero col flusso del loro dialogare, disamine critiche e statistiche di temi di studio e di lavori prodotti, che articolano ragionate, feconde bibliografie.

Ricchezza e policentrismo, dunque. Basta scorrere i nomi, non solo storici 'puri', chiamati da Melis a costruire il percorso, a rappresentare caposaldi o imprescindibili suggestioni: Mosca e Marongiu, Giannini, Benvenuti e Miglio, Ruffilli, Rotelli e Schiera, Berlinguer e Cassese, Calasso, Ascheri e Meriggi, Migliorino, ma poi anche Ragionieri, Caracciolo, Moriondo, Farneti e Neppi Modona, Aquarone e Pavone, Saraceno, Predieri e Violante, e ancora Serio e Zanni Rosiello; tra gli stranieri, Thuillier, McDonagh, Königsberger fino a Garapon, Bendix e Charles Maier.

Oppure, si può passare in rassegna l'articolata varietà dei centri di produzione, con le reti che da questi si dipanano, tra rocche egemoniche e loro propagazioni, voci isolate, altre attardate, altre ancora difformi o alternative: non solo cattedre universitarie e istituti di settore (l'ISAP di Milano e l'Istituto storico italo-germanico di Trento, in testa), ma gruppi di lavoro, associazioni di studiosi, convegni, consorzi, riviste scientifiche con le loro equipe, e non ultimi, archivi e biblioteche.

Vasto e al contempo particolareggiato è, infine, anche il panorama delle ricerche e delle prospettive, storiografiche, locali, bio/prosopografiche, antropologiche e sociali: si va dal Parlamento ai ministeri, dall'istituto prefettizio, dall'amministrazione centrale ai governi periferici, dalla magistratura ai sindacati, alle università, agli ospedali psichiatrici, dagli enti pubblici fino anche ai privati.

Emerge dal libro, insomma, un quadro ampio, mosso e insieme dettagliato, in cui il primo criterio euristico di questa giovane disciplina, che non arriva al secolo di vita, è la massima apertura dello sguardo: verso discipline 'altre' (la storia delle dottrine politiche e del diritto, ma anche la sociologia, l'economia, la scienza dell'organizzazione e delle finanze, la statistica, la linguistica) e verso storiografie di 'altri' (paesi europei, in primo luogo); verso tutte le fonti, innanzi tutto quelle archivistiche, nei supporti tradizionali ma ora anche audiovisivi e digitali; verso ogni epoca storica, e senza inibizioni rispetto a quella contemporanea (facendosene al contrario permeare, in un rapporto fruttuoso di input e output); infine, verso tutti i tipi di istituzione, anche quante non si declinano nella forma disciplinata del 'pubblico' e ad accogliere un'accezione più larga e flessibile di quella tradizionale del termine (istituzioni politiche e amministrative, dunque, ma anche educative, militari, economiche, finanziarie e bancarie, giudiziarie, culturali, imprenditoriali, sindacali, religiose, assistenziali, sociali, repressive).

È, dunque, il porsi al confine, o meglio lo 'sconfinare' che caratterizza con forza identitaria la storiografia delle istituzioni secondo Melis: nel metodo, per via di «contaminazioni» e «intrecci», a produrre un fecondo «meticciato», una libera «mescolanza di saperi»; nei contenuti e nell'oggetto, oltre la 'lettera' giuridica, da un lato, cercando l'istituzione nelle sue stesse 'carte' e scoprendone l'identità nel suo funzionamento concreto e nelle prassi, nel suo oscillare sommerso a partire dalla norma che la definisce, dall'altro, muovendo dalla realtà socialmente e politicamente da lei esperita e individuando nel potere esercitato ciò che la qualifica in quanto tale, prima di ogni codifica.

Dopo una rapida introduzione (D'Artagnan va in archivio, p. 7-12), in cui Melis incrocia il racconto dei suoi primi passi da studioso, agli inizi degli anni Settanta, con quello degli stessi esordi della storiografia istituzionale (con Mosca, prima, poi con Marongiu, alla fine degli anni '60), il primo capitolo (Come nacque e si sviluppò in Italia la storia delle istituzioni (politiche), p. 13-17), approfondisce la prima fase di definizione e di crescita della disciplina, tra gli anni Sessanta e Settanta: l'opera dell'ISAP, l'Istituto per la scienza dell'amministrazione pubblica, di Milano (Feliciano Benvenuti e Gianfranco Miglio i fondatori, dei giovanissimi Roberto Ruffilli, Ettore Rotelli e Pierangelo Schiera i seguaci), attraverso le sue famose collane; la mediazione culturale dell'Istituto storico italo-germanico, di Trento (Paolo Prodi); infine i primi «vascelli corsari», che identificarono allora la possibilità di approcci diversi e di visioni alternative rispetto al paradigma, lombardo.

Il secondo capitolo (Un apprendista e tre maestri molto particolari, p. 29-35), è interamente autobiografico e insieme programmatico. Parla del ruolo centrale di tre maestri nella costruzione della fisionomia culturale dell'autore, e di ciascuno dei tre si traccia la fondamentale lezione: Luigi Berlinguer (la fisiologia delle fonti), Roberto Ruffilli (la relazione con le altre discipline) e Sabino Cassese (la natura delle istituzioni).

Il terzo capitolo (Nell'officina della ricerca, p. 37-56) tratta dello sviluppo degli studi negli anni Ottanta e Novanta, «anni eroici» della storia delle istituzioni, per la ricchezza di iniziative di ricerca lungo nuovi filoni, le cui premesse furono la messa a punto di un complesso importante di strumenti e 'infrastrutture'.

Il quarto capitolo (Fine e inizio secolo: la svolta positiva, p. 57-73) attraverso una mappa delle cattedre italiane di storia delle istituzioni, visualizza l'affermarsi definitivo della disciplina a livello accademico, per poi sottolinearne il dinamismo dei dibattiti, giocati sul tappeto di nuove riviste e tra nascenti, consapevoli associazioni di settore (in particolare, la Società per gli studi di storia delle istituzioni con il suo organo Le carte e la storia, fondati da Melis a metà degli anni Novanta e da lui ininterrottamente dirette).

Il quinto capitolo affronta il tema dei benefici influssi da parte delle storiografie, non solo istituzionali, di altri paesi (Influenze straniere: le gite a Chiasso della storia delle istituzioni, p. 75-90), il sesto, invece (L'incontro decisivo con gli archivisti, p. 91-103) è dedicato al rapporto, centrale e fertile, dello storico con gli archivi, con i materiali da questi conservati e organizzati (le 'carte' che aprono lo studio delle istituzioni dall'interno, dispiegandole come realtà 'in movimento') e, irrinunciabile, con gli operatori di quelle fonti (spicca, anche per il suo peso autobiografico, quello con l'Archivio centrale dello Stato di Roma e con Mario Serio, ma molti altri vengono ricordati, non solo di ambito pubblico).

Il settimo capitolo (Dove va la storia delle istituzioni?, p. 105-123), nonché l'ottavo e ultimo (Conclusione molto provvisoria, p. 125-132), offrono, da un lato, un bilancio dello stato attuale dell'arte, tra status accademico pesato in cattedre e vitalità culturale valutata sul grado di apertura all'influenza sociale (sono citati, in particolare: Meriggi e la global history; Migliorino e l'auto-narrazione empatica delle istituzioni attraverso l'impiego di media visuali; altri approcci focalizzati sull'immagine, che concorrono sempre di più a ridefinire l'oggetto da una prospettiva giuridica a una interamente antropologica), dall'altro, alcuni essenziali criteri ispiratori per la ricerca del presente e del futuro (un «pentalogo»), mostrati nel rigetto di ogni sua perimetrazione e nella permeabilità alle istanze con cui il presente, sempre, la interpella. Conclude il libro una corposa bibliografia critica, storicamente contestualizzata (Per approfondire, p. 133-183).

Questa suggestiva autobiografia intellettuale che, per l'autorevolezza del suo autore, riesce a farsi storia di una disciplina, fonde i suoi molteplici elementi e interessi in un sorprendente stile letterario, che rende questo libro non solo sintesi importante di un dibattere scientifico nel tempo, ma anche piacevolissima, gustosa lettura.

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