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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 50 (Nuova Serie), aprile 2019

Speciale: La politica e la parola. I seminari della Biblioteca

Intervento di Luciano Canfora

Continuiamo nel nostro "Speciale" del 2019 a dare spazio al seminario - ospitato dalla Biblioteca, su impulso del Sen. Zavoli, già Presidente della Commissione per la biblioteca e per l'archivio storico - dal titolo La politica e la parola.

L'intervento del filologo e storico del mondo antico Luciano Canfora segue quello dell'On. Carlo Galli pubblicato nel primo numero dell'anno.

Docente di filologia latina e greca, ma anche di letteratura latina, storia greca e romana, Luciano Canfora è un profondo conoscitore della cultura classica, che studia con un approccio multidisciplinare. Ha pubblicato importanti studi sulla storia antica e su quella contemporanea.

Il testo è la trascrizione dell'intervento.

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Ho deciso di declinare il tema indicato, la politica e la parola, riflettendo su alcuni punti, il primo dei quali mi sembra si possa così sintetizzare: le formazioni politiche, i partiti, si trasformano più rapidamente del linguaggio. Si crea quindi una discrasia fra le trasformazioni delle formazioni politiche e quello che esse dicono: il loro linguaggio è più vecchio e lievemente difforme, donde l'impressione che non dicano il vero.

Un segnale del disagio di questo rapporto fra l'organizzazione, la formazione politica e le parole che ciascuna di esse esprime è nel nome che esse assumono; i nomi dei partiti politici stanno diventando buffi, inespressivi: Lega, Cinque Stelle, che non so cosa significhi, Fratelli d'Italia, che mi pare un inno politico, nazionale. Insomma esiste questa difficoltà a mettere in rapporto la parola che i politici esprimono con quello che accade, ciò che essi fanno.

La parola politica è anche da suddividere tra due soggetti: i politici medesimi che parlano, inevitabilmente, e i giornalisti che, quando fanno parlare i politici, sono molto più importanti, e - fenomeno questo molto interessante e direi anche benefico - snidano la reticenza della parola politica.

Non mi soffermo sugli esempi ma mi piace segnalare un solo fenomeno molto diffuso, cioè la ossessiva ripetizione della locuzione "in qualche modo". Nella discussione pubblica si ripete continuamente.

A pensarci bene è inquietante perché depotenzia ciò che è stato appena detto, che viene ridimensionato, messo in discussione, archiviato, "in qualche modo" come segnale non irrilevante - e irrilevante finisce con l'essere la parola politica. La scena, diventata celebre, della riunione a porte chiuse di un partito sofferente del nostro panorama politico in cui tutti gli astanti, lungi dall'ascoltare chi parlava guardavano il loro telefono, ha fatto epoca; questa foto è bella e molto significativa, ma anche deprimente dal momento che quella parola era percepita come inutile.

Nel mondo che mi accade di frequentare più spesso, per ragioni professionali e al quale voglio dedicare ora qualche breve riflessione, assistiamo in un certo senso alla stessa separazione, mutate alcune cose. Mi riferisco al mondo della città antica, prima realtà di un modello in cui le decisioni vengono prese collettivamente attraverso la discussione.

Nella città antica il politico parla, anzi direi che la città antica è il regno della parola. Già prima, potremmo dire già nella comunità guerriera descritta da Omero, i protagonisti non fanno che parlare. Ma quella oratoria non è avvertita come veridica. Come ha detto tanto tempo fa un grande filologo tedesco che si chiamava Moellendorff, l'equivalente del giornalismo politico nella città greca è la commedia.

La commedia ha sue regole, suoi tempi, smaschera il linguaggio dei politici e pronuncia parole politiche direttamente nella struttura della commedia ateniese come ci è nota da undici pezzi interi e da tanti frammenti. In particolare c'è una parte in cui gli attori smettono di recitare e il coro affida al capo, il corifeo, il compito di fare un comizio che si chiama parabasi, un comizio in senso stretto, cioè parla della politica liberamente, in genere aggressivamente, perché smaschera l'opera e la parola dei politici. Questa dicotomia era presentata da un esempio celebre - tra i pochi superstiti in realtà - che è la commedia I cavalieri di un grande che si chiamava Aristofane, vissuto a metà del quinto secolo avanti Cristo. Questi Cavalieri erano un ceto politico ad Atene, oltre che un corpo militare di élite, che detestavano il leader politico del momento.

Qual è la situazione concreta? Il protagonista è Popolo, un vecchio un po' suonato, un po' rintronato, che è dominato da un servo abile e imbroglione, Paflagone. Gli altri servi, che sono infastiditi dal dominio di costui, escogitano una strategia, ossia pescare un elemento peggiore di Paflagone. Lo individuano in un signore che vende salsicce, un salsicciaio, e gli spiegano che lui è l'uomo giusto. Perché? Perché può produrre manicaretti di parole.

Lui dice «ma io non sono in grado», e loro rispondono che invece ha tutti i requisiti: una voce repellente, una morale discutibile, e quindi può fare il mestiere di capo popolare. Lui accetta, c'è uno scontro tra i due che si svolge all'assemblea popolare e al consiglio, alla boulé. Vince il salsicciaio, il quale prende un'iniziativa, ossia quella di rigenerare Popolo, il vecchio, cui fa un trattamento più o meno stregonesco, facendolo ringiovanire e permettendogli di liberarsi di Paflagone il quale è costretto a fare il mestiere di salsicciaio.

Tutta questa metafora della commedia forse più famosa di Aristofane è evidentemente una derisione aspra, spietata, del linguaggio della politica.

Questo stato delle cose determina una reazione geniale, salutare, in un mondo appartato rispetto a quello della politica nella città antica, ossia la scuola filosofica. Tutto il corpus platonico, tutti gli scritti di Platone, dalla produzione giovanile a quella più senile, i Nomoi, ruota intorno al concetto che c'è un'antitesi tra il linguaggio mirante a persuadere, seduttivo, che è quello del politico, e il linguaggio che cerca la verità, che è quello filosofico-scientifico.

Contrasto insanabile, secondo Platone, il quale suggerisce quel governo dei filosofi che non piace al professor Galli, ma che è un'utopia dei filosofi.

Possiamo deriderlo pensando che oggi sarebbero i banchieri della BCE, ma invece non è così. Platone pensava ai cultori del sommo bene. Il suo modo di vedere non è isolato su questo punto, direi anzi che la consapevolezza dell'inganno implicito nel linguaggio seduttivo è presente nei grandi storici del mondo antico che dialogano tra loro a distanza.

Ne cito uno soltanto, un personaggio che umanamente è assai discutibile ma lucido, si chiamava Sallustio, uomo politico prima di ritirarsi a fare lo storico, il quale traducendo una frase tucididea dice, in riferimento a quel che si dice in Senato nel dibattito drammatico per la condanna o meno dei Catilinari: «Vera vocabula rerum amisimus». Abbiamo perso il rapporto tra le parole e le cose.

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Riferimenti e approfondimenti bibliografici

Luciano Canfora. Percorso bibliografico nelle collezioni del Polo bibliotecario parlamentare. Si suggerisce inoltre la ricerca nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca.

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