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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Dieci anni di apertura al pubblico della Biblioteca del Senato
n. 13 (Nuova Serie), febbraio 2013

Suggerimenti di lettura

Le fusa del gatto. Libri, librai e molto altro / Società bibliografica toscana

fusaIn questa uscita dei "Suggerimenti di lettura" MinervaWeb è lieta di ospitare una recensione d'eccezione: il testo della relazione di Attilio Mauro Caproni, Professore ordinario di Bibliografia presso l'Università di Udine e docente presso l'Università di Firenze, in occasione della presentazione della raccolta di scritti Le fusa del gatto. Libri, librai e molto altro (Società bibliografica toscana, 2012) che si è svolta presso la Biblioteca del Senato il 5 ottobre 2012. Un dono gradito che, nel dar conto dei molti modi in cui ci si può avvicinare alla storia della cultura libraria, ricorda a tutti l'avventuroso piacere della lettura.

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Leggere un libro è, bibliograficamente, un rischio: che il lettore lo sappia o no, verrà portato dove non immaginava di poter andare. I libri, ancora, tengono in vita un enorme patrimonio di esperienze, sogni, memorie, ma se non vengono compresi, essi si trasformano in una lettera morta.

Vi è, poi, un'altra faccia legata al fenomeno della lettura: questa risiede nel pericolo che non è quello che, solamente, investe il lettore, ma coinvolge perfino l'autore, perché i lettori sono sempre pronti a giudicarlo. Allora se l'atto della lettura è, come ho già anticipato, un azzardo, essa vuole dire che leggere, voler leggere e saper leggere sono, sempre meno, comportamenti garantiti. Così, nella circostanza odierna, nella mia veste di commentatore della raccolta di articoli offerti dalla Società bibliografica toscana, con l'intitolazione Le fusa del gatto. Libri, librai e molto altro, oggi (dicevo) è raro che nella solitudine dei documenti digitali si condensa un fenomeno il quale ci propone (nonostante l'ubriacatura delle tecnologie informatiche, ubriacatura ancora non smaltita) un limbo che, grazie ad una formula quasi incerta, presenta una serie di riflessioni che offrono ai lettori delle sensazioni di grande meraviglia. Del resto il cammino dell'immenso scenario prodotto dalla cultura italiana, nel periodo intorno all'avvento della tipografia (ma non solo questo), ritrova una sua ragione d'essere (come più volte, ci ha ricordato, in un'altra forma, Stéphane Mallarmé) nel contesto di un'architettura di pensieri, un percorso di conoscenza che lo si può ricavare dal concorso di pezzi scritti su dei temi che, solo parzialmente, sembrano avere in comune un omogeneo filo conduttore, e che, invece, pur nella loro frammentarietà (o, se si preferisce, nella maniera di una cultura dei frammenti), i medesimi riescono ad accendere la fantasia (e l'intelligenza) di chi si accosta a dei simili testi.

La Società bibliografica toscana ha, recentemente, pubblicato (come ho già avuto modo di anticipare) un'interessante raccolta di articoli che ha come argomento principale il concetto di libro, con una qualche estensione verso il tema dell'archivio e delle biblioteche, ivi comprese, tra l'altro, le librerie personali (valgano per tutti gli interventi di: Sergio Fatti intorno alla Collezione dei libri di Filippo Senesi, oppure quello di Carlo Pulsoni sui Tesori del fondo Schott, nella Biblioteca Augusta di Perugia). Questa tipologia di librerie personali, come forse si sa, rappresentano un filone della ricerca a me molto caro. Ma la citata antologia oggetto del presente discorso ha un titolo quasi allegorico, parzialmente tematico, che così si cartellina: Le fusa del gatto. Libri, librai e molto altro, dove si richiama, come appare evidente, l'impronta tipografica della predetta Società, la quale sembra ispirarsi alla similare e gloriosa marca dei Sessa. All'interno di una simile rilevante opera si possono ritrovare davvero dei bei saggi, alcuni dei quali (e lo dico con soddisfazione) scritti da dei miei bravi allievi che ho avuto la possibilità di apprezzare quando, presso l'Università degli studi di Udine (dove ho esercitato una parte consistente della mia docenza) avevo fondato, una ventina di anni fa, e avevo diretto, per molto tempo, il Dottorato di ricerca in scienze bibliografiche, archivistiche e documentarie (in quei lustri il solo presente in Italia).

Il presidente della predetta Società, l'illustre avvocato Paolo Tiezzi Maestri, nel premettere il testo sul quale sto ragionando, esprime molte idee illuminanti e, fra l'altro, conclude la sua introduzione con le seguenti lineari parole (di cui ne cito, ovviamente, solo una parte): «[…] più di venti articoli che sono la testimonianza dell'entusiasmo che c'è nella nostra associazione, dove chi sa molto, non ha esitato ad unirsi e prendere per mano chi sa poco, per spiegare cosa sono i libri antichi a chi non ne sa niente».

Ora, al termine di questa mia antiporta, desidero ripetere che, nella circostanza odierna, mi astengo ad operare un noioso commento testo per testo qui incluso (non se ne giustificherebbe, del resto, la ragione), ma cercherò di affrontare l'argomento dall'ottica del bibliografo, poiché è la veste (probabilmente) che più mi si addice e, ancora, mi consente di proporre un'analisi (speriamo) non scontata, di questa silloge di pensieri, tentando così d'indagare il nesso (se vogliamo la difficilissima intimità) che può esistere tra un testo, e uno studioso che propone quel testo.

Infatti, ogni volta che l'immaginazione urta contro quel circolo chiuso che è espresso da un libro, come anche, in una qualche maniera, annotava Trithemius, il pensiero (dicevo) tocca, sovente, qualche cosa di originale da cui proviene, e che lo può superare solo per ritornarvi. (Concetto questo, e lo dico come se fosse un a parte teatrale, ripreso, in una diversa interpretazione, nella seconda porzione del Novecento, dal grande Maurice Blanchot, in una delle sue incancellabili opere). Invero, questo quasi teoretico parametro è un postulato primario che la Bibliografia, come disciplina scientifica, codifica, poiché la stessa ci fa capire come ciascun autore è, di sicuro, colui che, metaforicamente, scrive (quasi) per sopravvivere, in una dimensione che la ricordata tematica bibliografica rende postuma. Ecco, perciò, ritrovata la prima verità del libro sul quale sto ragionando: questa verità, mi sia consentito ribadirla, s'innesta all'interno dei tracciati della Bibliografia, intesa come historia literaria (e un esempio di un simile contenuto e offerto dallo scritto di Alessandra Basso, Il teatro di tutte le scienze e le arti…) la quale, poi, impone di comprendere quale sia la vera condizione dove qualsiasi scrittore intende incamminarsi nel formulare un percorso che designi un suo segnico ragionamento.

Così, per questo concreto insieme di articoli, allora, è possibile affermare che essi formano un libro vero. E come i veri libri, che scavano piste raramente battute, e aprono gli occhi su ciò che, fino ad un momento fa, era sepolto, anche Le fusa del gatto che questa Società bibliografica ci propone, è un'opera nata (come si suol dire), ovviamente, dall'interpretazione delle forme segniche dell'intelletto, e dalla razionale mediazione del tempo. La si direbbe cresciuta quasi invisibile, e silenziosa, come una pianta, ossia una di quelle belle (e riuscite) creazioni di laboratorio sorte da una caparbia e ripetitiva manipolazione genetica, e in virtù di una meticolosità quasi maniacale (ma si fa per dire) nel rigore, con lievi diversioni e variazioni che sembrano compiere sempre lo stesso percorso documentativo.

Confesso la mia simpatia verso i libri di questo tipo. Sono libri, in apparenza, che non impongono (totalmente) le proprie idee, ma le danno per scontate, lasciandole correre inarrestabili in ogni angolo, come dei pensieri cristallizzati nella memoria.

Non saprei definire se i componimenti qui presenti, che vanno da: «′Nell'arca delle pubbliche scritture′: Archivi tra storia, incontri e memorie, di Neda Mechini, a: Il cimitero dei libri abbandonati, di Oliviero Diliberto», e passano (e li elenco solo in una forma tematica) per i percorsi di storia della tipografia, eppoi epistolari, vite di santi, scampoli di editoria musicale, vignette xilografiche, alvei di collezionismo librario, storia di libri, elogio dell'arte della stampa, librerie d'autore, in pubbliche biblioteche, etc. (ma l'elenco sarebbe troppo lungo per riportarlo nella sua completezza), rappresentano, ciascuno di loro, solo dei semplici, ma essenziali, segmenti di una non astratta teoria bibliografica, oppure esprimono delle metodologie critiche intorno al concetto di libro, e di documento (ma non solo questi) in una certa epoca storica, così da diventare elaborazioni concettuali, al di fuori (per la loro efficacia) dalle sole contingenze mondane spersonalizzate. Questi interessanti contributi, inoltre, sono pensati e messi in atto da studiosi che hanno i loro tracciati biografici e intellettuali, per grande parte, nei principi istituzionali della Bibliografia. In essi non c'è, unicamente, lo sforzo di ricostruire, induttivamente, ispirazione e significato intorno agli argomenti dei vari testi, ma possiedono un impegno storiografico totale, in cui tutti i materiali, temporalmente significativi, sono raccolti e messi, in una qualche forma, in una relazione tra di loro, e con gl'interpreti che dai medesimi derivano. Adesso posso, certamente, ripetere che un simile insieme di riflessioni propone un'efficace storia della cultura libraria per grande parte, ovviamente, a forte base bibliologica. In una siffatta angolazione si precisano quali siano stati i lettori dei tempi investigati intorno ai secoli in cui la tipografia si era affacciata, ed affermata, in un ambiente in cui la politica della riproduzione a stampa dei singoli manoscritti era, sovente, già accentrata nel rapporto tra testi e lettori, non senza notizie sulla produzione delle singole unità librarie, e sulla loro diffusione (e non trascurando, poi, di descrivere le condizioni culturali ed economiche di un'Italia che ha avuto il suo splendore in secoli, e in tempi, ormai, ahimè, tanto lontani).

La Società bibliografica toscana, nell'offrire ai noi lettori quest'ultimo prodotto dell'ingegno, perciò, si propone di dare la parola a quei personaggi, e/o a quegli avvenimenti, attivi nei rispettivi tempi indagati, così d'attuare una vera carrellata sugli spiriti e sugli argomenti più interessanti che è possibile approfondire (si veda, tra i molti, alle pagine 139 e sgg., il contributo di Raffaele Micheli su: Giacinto Gigli e l'avvento del giornalismo, per esempio), tanto da fissare l'urgenza dialettica (e direi quasi agostiniana) che, sovente, intercorre nel rapporto tra il documento segnico, e il suo autore (ivi compreso il suo destinatario). Così, in ordine a questa mia primaria osservazione al presente libro, mi è, probabilmente, possibile rammentare che il medesimo si auto presenta come un anomala forma di canone bibliografico.

L'impegnativa parola canone, com'è noto, possiede tre significati. Il primo è quello di: catalogo, repertorio, poiché propone dei testi conosciuti in una determinata (ma non solo in essa) stagione bibliologica (penso, tra l'altro, al testo di Manlio Sodi su: Il libro della riforma liturgica tridentina…). Il secondo significato, tratteggia una rassegna di temi e di documenti di vario tipo che possiedono, in se stessi, una loro intrinseca autorità (e anche qui il modello sarebbe il bel testo di Luca Rivali su: Un nuovo esemplare del rifacimento del «Libro d'oltremare», di Niccolò Poggibonsi, Venezia 1518). Il terzo aspetto del cosiddetto canone bibliografico è dato dall'insieme di autori e di opere presi entrambicome modelli. Si tratta, di conseguenza, per la nostra antologia, di un archetipo che possiede una forma di regola e di ordine per un discorso librario, così come si è visto, nel secondo e nel terzo caso del suo contenuto, vale a dire di una scelta di argomenti che propongono e possiedono un criterio con il carattere di validità o di esemplarità. Ma, adesso, per un attimo, mi sia consentito tornare al problema sul quale sto ragionando, per provare a definire che cos'è un canone, soprattutto in relazione a quest'opera voluta dalla Società bibliografica in questione. Non vorrei, tuttavia, fare un'osservazione, unicamente, di carattere temporale, però con conseguenze importanti anche per la sua definizione. Quando si parla di un testo che ha le sembianze di un canone (e Le fusa del gatto sembra possedere questa valenza), alludo, in generale, ad un libro che ha una funzione performativa la quale assegna, a ciascun soggetto trattato, un'autorità difficile da scalfire. Va, però, aggiunto che, accanto a questi dati di fatto, che possono rimanere anche senza conseguenze, le singole materie che sono approfondite nei ventisette/ventotto articoli (se si considera anche la premessa introduttiva), producono, nella loro realtà, una forma d'affermazione della cosiddetta fenomenologia bibliografica materiale, tanto cara all'illustre studioso Rudolf Blum, perché la stessa sembra, principalmente, attenta alla natura di manufatto dei testi che, in questa sede, si va ad interpretare (e il contributo di Maria Alessandra Panzanelli ne è un modello). Molte volte, poi, le peculiarità della citata fenomenologia bibliografica potrebbero restare fine a se stesse. Tuttavia, è indubbio che lo studio sui contenuti, e sulla stesura del libro a stampa, dei documenti archiviali, dei testi musicali, e di molto altro ancora, mettono, in un rapporto stretto, una serie di pagine scritte, con il suo commento. Qui si è dato vita (e tuttora si dà spazio) a risultati notevoli nelle ricerche compiute sugli ateliers dei tipografi (o intorno agli altri argomenti analizzati), sui rapporti tra la composizione dei libri e la viva discussione che si svolge (e si è svolta) intorno ai suoi percorsi e alle sue conclusioni. Forse il pericolo maggiore che minaccia un'analisi bibliografica di un'opera di tal genere, è l'iper specializzazione della sua interpretazione. Infatti, una similare forma di esame, potrebbe richiamare (e prendere, latamente, in prestito dalla filologia) il concetto di mouvance, per il cui tramite, qui, i singoli ragionamenti investigati, sembrano esaltare, aprioristicamente, la ricerca e la tradizione (anche quella testuale) presente nei molteplici prodotti documentari, con il proposito di poterne individuare i luoghi, e i modi della loro presentazione e, probabilmente, interpretazione (qui, ovviamente non posso non citare lo scritto di Paolo Tiezzi Maestri su: Una copia di avviso non censito dall'ICCU). Dunque la chiave bibliografica d'osservazione di tali prodotti dell'ingegno potrebbe diventare una forma di estrema tipizzazione per farci intuire la sua (la loro) intrinseca capacità professionale, con il fine di valutare un determinato mercato librario (e/o documentario) il quale, di sicuro, possiede, nel suo contesto, i caratteri più importanti e qualificanti degli studi, con una fortissima valenza bibliologica, archivistica e di altri significativi ambiti documentari.

Ora, nell'avviarmi ad una prima conclusione di questo mio commento, desidero, ancora, ricordare che il presente testo, tra i suoi molti pregi, ne possiede alcuni che cerco, in un qualche modo, di sintetizzare:

- questa opera, di sicuro, si configura come un'entità conoscitiva che indica piste di osservazione per la lettura, distribuisce chiavi di riflessione sui tempi e sui temi investigati, fornisce perfino una mappa di concordanze ideali, tali da renderla come una forma enciclopedica di conoscenze di grande godimento. Allora, se fosse vero questo mio quasi finale commento, sarebbe interessante interrogarsi per verificare se, e fino a che punto, esistono delle analogie tra i singoli argomenti qui presenti, e il resto del parterre bibliografico ivi esistente, al fine di privilegiare, per ogni questione qui analiticamente proposta, se, nella realtà, possa davvero formarsi un rapporto tra chi scrive un testo, con l'opera che ne deriva? (Si legga alla pagina 49 e segg., come corrispondenza a questo quesito, il contributo di Gianpiero Colombini su: L'epistolario di Jacopo Ammanati Piccolomini, 'promotor' umanistico di Pienza). Oppure, ancora m'interrogo, se sembra possibile sovrapporre opera e autore, al fine di mescolarsi insieme, nell'intento di farli convergere in una figura comune, così da rendere questo manufatto documentativo come una delle espressioni più convenienti e più convincenti per proporre un archiviale disegno totalizzante e combinatorio? Questa mia plurima chiave d'interpretazione dubitativa non propone, e, certo, non offre risposte immediate, e tuttavia, non appare, solo, come una corsa alla semplice comprensione delle varie questioni proposte, e non sembra, nemmeno, una forma volta all'elementare espressione di molteplici concetti presentati, e non è, ancora, neppure l'ansia di penetrare i segreti inclusi in una silloge di pensieri che possiedono, tra le loro molte qualità, la sembianza di un laboratorio. Il mio proposito attuale, semmai, ammesso ve ne sia uno solo, alberga nel tentare di costruire (e di valutare) una forma di comunicazione bibliografica intorno al contenuto di questi elaborati, la quale aspira, nel palesarsi, d'infondere un sapere che sia, al tempo stesso, critico, e bibliograficamente (ma mi ripeto) documentativo. Del resto il medesimo nasce dal sospetto che tra la presente impresa, e i suoi contributori, si stenda una allegorica terra neutra che potrebbe, ipoteticamente, diventare il vero luogo da esplorare, vale a dire qualche cosa di simile ad un «un testo dentro il testo». Insomma, Le fusa del gatto. Libri, librai e molto altro, anche con questo riferimento iconologico alla marca tipografica dei gloriosi Sessa (oltre a quella dell'ente che ne è l'editore), e con tale immaginifico cartellino, (mi interrogo) potrebbe considerarsi come un prodotto dell'intelligenza che avrebbe la forza di disegnare, tramite il concetto dei pensieri dentro le parole, un modello che, nello stesso tempo, è, quasi inafferrabile? Per cercare di rispondere a questo ulteriore dilemma, si potrebbe, ipoteticamente, osservare che i tanto variegati ragionamenti qui approfonditi, alcuni anche in una forma molto breve, si palesano come dei nuclei tematici che s'irradiano lungo tutta una trama di una realtà che essi vogliono esprimere, tanto che, se venissero meticolosamente analizzati uno per uno, probabilmente, ciascuno, per la propria forza, potrebbe essere la base per molti, possibili, libri a venire.

Un'altra sensazione che ho provato ancora nell'osservare questo libro, determina, ovviamente, una netta sincronia con il tempo in cui sono immersi (ovviamente) i vari argomenti esaminati, i quali procurano una grande emozione nel veder rivivere, tramite la scrittura, gli oggetti di riferimento ai quali i citati pezzi fanno allusione. Per questi, si avverte lo scorrere d'immagini di un passato che fugge quasi (e metaforicamente) nel presente, ma non sa, nella realtà, tornare indietro.

Una simile percezione di atemporalità, del resto, non toglie, alle singole questioni approfondite, la forza di proporre un messaggio che, in Bibliografia, possiede un contenuto che si avvicina (come ho già detto) al carattere della historia literaria, poiché è solamente questa ultima tipizzazione contenutistica della disciplina che definisce, per ciascuna idea anche qui palesata, dei codici e dei modelli cognitivi.

Questa raccolta di articoli, infine, si potrebbe dire che forma, davvero, un gran bel libro, e come tutti i veri libri che scavano piste poche frequentate, e aprono gli occhi su ciò che fino poco tempo fa era sepolto, questo menzionata raccolta (dicevo) è possibile rammemorare che diventa un'importante forma segnica dell'intelletto che transita nel tempo della sua sostanza.

A conferma di queste mie accennate annotazioni, per chiudere, davvero in una forma convincente (almeno me lo auguro) la presente riflessione, mi avvalgo di alcuni indelebili pensieri di Oliviero Diliberto, cioè di uno dei più illustri studiosi ivi presenti quando (pressappoco) così scrive: «I libri hanno, dunque, destini singolari. Seguono percorsi tortuosi e vie carsiche [così] […] i singoli volumi [...] occupano spazi vitali, ci obbligano a defatiganti discussioni con chi ha la ventura di vivere insieme a noi».

Allora, nonostante che questo citato testo (come avviene di solito) circoscriva i suoi ambiti su alcune determinate tesi, per portare davvero a compimento la mia inferenza, posso ripetere, con vigore, che tutti gli scritti presenti ne: Le fusa del gatto, raccolgono quell'essenza che la Bibliografia ricerca, dove in quell'angolo che gli arabi, sempre, hanno, latamente e allegoricamente, etichettato come una pianura proibita, si condensano (e si ritrovano) quei territori della scrittura in cui lo stile degli studi bibliografici - bibliologici, nonché di quelli archiviali e documentativi, etc., s'illuminano della loro intrinseca semplicità che nasce dopo un lungo sforzo, e riproducono la testimonianza conoscitiva di laboriose e difficili prove. Allora è proprio in una simile maniera che non mi dispiacerebbe, come cultore delle discipline librarie, continuare a vivere i miei residui giorni camminando, da solo, per una di quelle pianure ignote che i percorsi tematici di libri come questo, nel tempo, propongono, e dove, probabilmente, e per fortuna, passano, davvero, poche anime intellettualmente vive. Del resto, poi, i singoli libri, in genere, sono degli oggetti (apparentemente) paradossali, vale a dire i soli reperti il cui messaggio non sempre coincide con la sua soggettiva fisicità. Un testo come questo, ancora, concentra su di sé tutte le figure che la Bibliografia esplora in una maniera oggettiva, poiché lo stesso possiede un bagaglio mentale nel quale i suoi momenti si misurano sugli assunti che esso mette a disposizione. Allora il messaggio principale che in questa opera è possibile, in sostanza, intravedere ha la facoltà di essere decifrato sempre, e si perpetua incorporeo e indistruttibile attraverso le varie vicende dei singoli lettori che hanno una valenza certa di stampo geometrico. Per quest'idea, con ferma convinzione, penso che, proprio grazie ai principi insiti nella scienza bibliografica, avviene quel processo in cui ciascun documento scritto, tipograficamente registrato, non sembra altro che il luogo dove le esperienze qui narrate, le storie, le cose, le persone si tramandano e, segnicamente, si manifestano entrando dentro a ciascun lettore, come se il loro nucleo fosse all'interno della vita presente per ciascuno di noi. Dunque è grazie all'insieme di queste componenti, che è lecito intraprendere il viaggio che questa raccolta di articoli, bibliograficamente, mi ha concesso di compiere, con immenso piacere. Infine è, di certo, merito dei singoli autori aver coniugato, per i loro espressi pensieri, la scrittura con la tecnica del montaggio che della stessa si può offrire, e che è, sovente, in grado di costruire molteplici chiavi di intrecciate interpretazione.

Attilio Mauro Caproni

Loco di Rovegno, agosto, 2012

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