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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
Venti anni di apertura al pubblico della Biblioteca del Senato
n. 74 (Nuova Serie), novembre 2023

Gianni Vattimo, Società della conoscenza o società del loisir. In memoriam

L'intervento di Gianni Vattimo che qui riproponiamo proviene dagli atti del seminario dal titolo "Scienza e umanesimo: un'alleanza?", promosso dall'allora Presidente della Commissione per la biblioteca e l'archivio storico, sen. Sergio Zavoli, e svoltosi nel novembre del 2017 presso la Biblioteca del Senato, che ne ha curato la pubblicazione. Al convegno parteciparono autorevoli esponenti della scienza, della cultura e della filosofia, discutendo in tre sessioni varie sfumature intorno al tema; alcuni interventi si trovano anche nei numeri dello Speciale "Scienza e umanesimo. I seminari della Biblioteca"di "MinervaWeb" del 2018.

Il testo che segue, all'epoca inviato e rivisto dall'autore che per motivi di salute non poté prender parte fisicamente all'incontro, viene oggi ripubblicato con il suo titolo originale, non presente nel volume degli atti, e nella medesima forma in cui lì è apparso alle pp. 355-367.

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- Gianni Vattimo, Società della conoscenza o società del loisir

- In memoriam

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Gianni Vattimo, Società della conoscenza o società del loisir

Mi rendo conto del carattere, consapevolmente, provocatorio del titolo. Tuttavia ritengo che esprima bene la situazione delle nostre società avanzate - sottolineo che penso soprattutto a queste società - in cui la quantità di informazione disponibile e utilizzabile per la produzione di cose e di servizi è ormai così sterminata da doversi necessariamente riferire alle macchine, alle memorie artificiali, ecc. come possibile 'soggetto' capace di contenerla e di 'dominarla'. La modernità è stata anche l'epoca in cui si è sviluppata la nozione, e poi il culto, del genio; del genio 'universale' di un Leonardo, e poi del genio artistico come quello nel quale, attraverso il quale, «la natura dà la regola all'arte». Le due immagini del genio - la mente capace di un sapere universale, che era già il sogno della metafisica di Aristotele (vedi), e il talento 'innato' del grande artista - sembrano lontane tra di loro, ma forse entrambe rispecchiano la coscienza moderna dell'estensione indominabile delle possibilità della scienza e anche dell'arte. È come se via via che la modernità avanzava, si fosse anche ridotta la distanza tra le due concezioni del genio: il genio della nostra epoca è qualcuno che sa tutto solo nella misura in cui un altro gli dà la regola, non più la natura, forse, ma il calcolatore, la rete in cui circola, non saputo simultaneamente e articolatamente da nessuno, da nessun soggetto finito per quanto dotato di talento, il sapere universale. In questa trasformazione moderna del 'soggetto' del sapere sono momenti caratteristici le ricerche sempre rinnovate di 'arti della memoria' (da Bruno a Pietro Ramo), la nostalgia romantica (e marxiana) per una società in cui gli individui non fossero legati alla catena della divisione sociale del lavoro (mattina pescatore, sera violinista), il grande progetto kantiano di ricondurre il sapere a condizioni a priori nella ragione, rinnovato, già con un certo pessimismo, dallo Husserl della Crisi delle scienze europee [titolo completo La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Introduzione alla filosofia fenomenologica, ndr].

Oggi simili progetti teorici, una volta più o meno riservati al mondo dei dotti, si configurano anche, e giustamente, come programmi politici. L'Unione Europea parla esplicitamente di una 'società della conoscenza' come orizzonte direttivo delle sue politiche comunitarie di istruzione, divulgazione, educazione continua: anche e soprattutto, come si capisce, con il proposito di vincere le sfide del mercato globale, che richiede una capacità diffusa di utilizzare i nuovi mezzi prodotti dalle nuove tecnologie. Bisogna sia organizzare il vero e proprio 'riciclaggio' di grandi masse di lavoratori dell'industria che devono acquisire nuove specializzazioni per non essere esclusi a metà della vita o poco oltre, dal 'mercato del lavoro'. E bisogna che aree nazionali o sovranazionali, in questo caso l'Europa unita, diventino capaci di produrre autonomamente quelle innovazioni scientifico-tecnologiche che permettono loro di non soccombere nella competizione economica mondiale. Scopi sacrosanti, a cui tutti come cittadini siamo interessati; dalla realizzazione di simili mete dipende non solo la nostra ricchezza materiale, ma anche, per esempio, il nostro destino di corpi viventi che hanno bisogno di disporre di nuovi farmaci per allontanare la minaccia - sempre meno 'naturale' - della morte. La consapevolezza filosofica (non di tutte le filosofie) circa il carattere essenzialmente 'tecnico' della scienza moderna non potrebbe avere una conferma più esplicita e indubitabile: quando parliamo di società della conoscenza parliamo in realtà di una società del sapere tecnologico diffuso e perciò più ricca di possibilità 'produttive'.

Se si tengono presenti queste osservazioni, nasce per lo meno un dubbio circa il significato da attribuire al termine 'società della conoscenza'. Risulta infatti quanto meno drasticamente limitato l'implicito senso eulogico, connotato di valori positivi, che l'espressione immediatamente trasmette. Il conoscere (si intende: la verità, l'ordine delle cose, al limite Dio come supremo 'oggetto' della contemplazione beatifica) è sempre stato nella nostra tradizione sinonimo della attività più degna e gratificante dell'uomo. Tuttavia, se non già prima, certo almeno in Kant, la filosofia ha colto e teorizzato la differenza tra conoscere e pensare. A questa differenza si rifà evidentemente anche, nel secolo ventesimo, un filosofo come Heidegger quando pronuncia la scandalosa affermazione secondo cui 'la scienza non pensa' (che gli ha attirato tante critiche, peraltro da parte di gente che non si sognerebbe mai di mettere in dubbio, invece, la parola di Kant). Ebbene, in Kant il noumeno, l'essere 'pensato' è l'essere in sé del mondo del quale non possiamo sapere e conoscere nulla, giacché la nostra conoscenza, quella su cui si fonda il sapere, è limitata al fenomeno, a ciò che appare. Le attività 'superiori', se vogliamo chiamarle così, della ragione umana si esercitano tutte oltre il mondo del fenomeno, a cominciare dall'uso pratico della ragione, che è caratterizzato da una capacità di iniziativa non determinata causalmente dalla catena dei fenomeni, per finire alla contemplazione estetica che non dice nulla del come stanno le cose, ma si colloca nell'ambito di un libero gioco delle facoltà del soggetto, qui inteso evidentemente come qualcosa di noumenico. In generale, gli interpreti di Kant sono concordi - almeno credo - nel riconoscere che il merito della sua critica è stato certo quello di chiarire i fondamenti della conoscenza; ma anche, e forse soprattutto, quello di limitare il terreno del conoscere scientifico lasciandone fuori, senza condannarlo all'arbitrio e all'irrazionalità, il mondo della libertà, dei valori, dell'esperienza religiosa - che, in molteplici sensi, può essere solo il 'mondo', o non-mondo, del noumeno.

Il titolo di questo intervento si potrebbe forse riformulare come Società della conoscenza o società del pensare?, ma se poi ci domandiamo un po' più specificamente che cosa caratterizzerebbe, in questa distinzione di origine kantiana - anche se non letteralmente reperibile nei suoi testi - il pensare rispetto alla conoscenza, non tarderemmo a trovare ciò che ho proposto di indicare con la parola loisir. O forse anche 'gioco' - che ancora una volta richiama il Kant estetico, ma anche l'ermeneutica di Hans Georg Gadamer. In questa accezione, 'gioco' ci permette di cogliere almeno due importanti caratteristiche del pensare in quanto non riducibile al conoscere: la libertà e il coinvolgimento emotivo. Dunque, due elementi che non è sbagliato riportare anche al loisir. Osservare che un tale modo di caratterizzare il pensiero lo riduce, appunto, alla frivolezza dei comportamenti ludici e ne perde l'elemento di serietà, significa essere ancora prigionieri dell'idea che l'attività suprema dall'uomo è il conoscere; che può essere l'attività suprema solo se è contemplazione di un ordine divino in cui vedere come le cose autenticamente stanno, ma significa anche godere della beatitudine eterna. Spinoza lo pensava: amor dei intellectualis. Ma noi? La lotta che il pensiero moderno, certo anche con Kant, ma poi, molto più radicalmente, con Heidegger ha condotto contro la metafisica ha il suo motivo proprio nel rifiuto di immaginare il senso dell'esistenza come rispecchiamento di una verità data una volta per tutte che si tratta solo di registrare e rispettare - dai procedimenti tecnici alle scelte morali. Il pensiero come gioco e loisir non è certo slegato dall'attività conoscitiva; ma vi si lega come hanno insegnato Kant e poi Heidegger: è la condivisione già-sempre data con la nostra esistenza storica, di un orizzonte entro cui l'esperienza dei fenomeni e il conoscere scientifico ci diventano possibili. Poiché non è - nemmeno in Kant e meno che mai in Heidegger - una conoscenza preliminare, ma è piuttosto una 'disposizione' storica della nostra ragione, questa condivisione ha i tratti del vissuto che, in quanto non determinato da un dato fenomenico, è anche essenziale spontaneità. Perciò gioco e espressione di libertà - dunque una forma di piacere, che è descritto nel modo più icastico dal Kant della Critica del giudizio, dove il piacere estetico che ci procura la contemplazione dell'opera d'arte è il piacere di sentirci capaci di condividere con altri la nostra esperienza, una sorta di sentimento di comunità (in Kant: comunicabilità pura, al di là di ogni specifico contenuto). La contemplazione di Dio nella teologia e nella mistica cristiana non ha mai avuto davvero il senso 'conoscitivo' del geometrismo di Spinoza; la stessa beatitudine è stata spesso descritta come un banchetto, uno stare insieme conversando, che la tradizione cristiana ha anche chiamato agape - qualcosa di non tanto diverso dall'amore in tutti i suoi sensi.

Non intendo naturalmente insistere su questo lato mistico della mia esposizione; e anche il richiamo a Kant ha anzitutto il senso di cercare una legittimazione per la tesi 'scandalosa' che so di proporre. Giacché un certo scandalo non può non sorgere quando si passi dalle (innocue?) considerazioni filosofiche su pensare e conoscere a un tentativo di trarre da esse conseguenze di tipo pratico, sociale e politico. Che cosa dovremmo insegnare a scuola? Il gioco al posto della dura disciplina dell'apprendimento di conoscenze che sono sempre più indispensabili alla nostra vita individuale e associata? Il fatto è che con la conoscenza e la diffusione di essa accade un po' ciò che accade con il concetto di 'sviluppo'; al quale sempre più spesso, oggi, si associa il termine 'sostenibile'. Viene in mente qui, addirittura, una frase di Nietzsche: «Tutto dipende da quanta verità si è disposti a sopportare» (o qualcosa di simile) [il riferimento è a un passo di Ecce homo che qui riportiamo nella prima edizione italiana delle Opere di Friedrich Nietzsche. Ed. italiana diretta da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. 6, t. 3. Milano, Adelphi, 1970, p. 266: «Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo? Questa è diventata la mia vera unità di misura, sempre più», ndr]; che naturalmente in lui aveva un senso diverso, ma che in definitiva potrebbe non essere così lontano dal nostro argomento. Analogamente alla questione dello sviluppo, il problema sociale della conoscenza è ormai sempre più quello dei suoi limiti 'naturali'. Si pensi per esempio alla quantità di informazione che viene distribuita quotidianamente da giornali e mass media. Chi cerca di tenersi 'al corrente' - per esempio anche la categoria dei saggisti, dei politici, dei critici della società a cui molti di noi appartengono - si trova oggi molto spesso in una condizione di saturazione; deve ricorrere a collaboratori o a 'motori di ricerca' che gli forniscano una pre-selezione del materiale che alla fine cercherà di leggere direttamente. Fortunatamente (o sfortunatamente) il pubblico medio non legge e non ascolta tutto, o non si preoccupa affatto della completezza della propria informazione, ha altro da fare. E questo diventa anche un problema per il funzionamento della democrazia, com'è abbastanza ovvio. In tema di democrazia, altro aspetto rilevante del problema della conoscenza è quello che si riflette sulle sempre più frequenti decisioni pubbliche che implicano saperi specialistici: se c'è un referendum sul problema degli impianti nucleari, per esempio, coloro che sono chiamati a votare hanno sufficienti conoscenze di fisica per poter decidere con cognizione di causa? Per sapere ciò di cui si tratta, gli elettori dovrebbero essere dei piccoli Leonardo da Vinci, e ovviamente non lo sono. Si può immaginare una società della conoscenza nella quale, come nel caso dello 'sviluppo', si realizza progressivamente una condizione di 'leonardismo' generalizzato? Ma se no, che cosa?

Qui la distinzione tra pensare e conoscere, tra scire e frui, si impone in tutta la sua possibile attualità. Non può certo indurci a un frettoloso abbandono dell'ideale del conoscere e della promozione della scienza, come qualcuno sospetta quando dalla filosofia si insiste su questo tema; ma almeno a una inderogabile ridefinizione del significato sociale del conoscere. Non è un caso che la società in cui matura la crisi dell'ideale dello sviluppo quantitativo della conoscenza sia anche la società dell'informatica. Un fortunato libro di Hubert Dreyfus di qualche anno fa portava come titolo What computers can't do (Ciò che i computer non sanno fare) [New York: Harper & Row,1972]. Offre una specie di versione aggiornata della famosa disputa su Natur- e Geisteswissenschaften della fine dell'Ottocento. Naturalmente, ci sono cose che i computer non sanno fare, ma dobbiamo ormai sempre più prestare attenzione a ciò che sanno fare, e servircene nel modo più efficace. Non si tratta solo, insomma, di rivendicare l'irriducibile carattere umano della vita della mente, ma di riconoscere e promuovere positivamente la possibilità di ridurre al non-umano una quantità di attività che in passato occupavano e appesantivano il lato propriamente umano della nostra vita. Potremmo richiamare qui tanti studi sull'abitudine come modo di liberare l'attività cosciente da preoccupazioni banali. O anche posizioni come quelle di Schiller e dell'idealismo tedesco contro il moralismo kantiano: la moralità non è minacciata dall'abitudine a fare il bene, anzi ne risulta accresciuta la civiltà. Una società della conoscenza è una società in cui, come nel caso delle buone abitudini che ci fanno fare il bene senza pensarci, la conoscenza è 'disponibile', nelle reti, nel sistema delle memorie artificiali, e 'funziona' anche se non c'è da nessuna parte - forse non lo credeva nemmeno davvero Hegel, che parlava giustamente anche di 'spirito oggettivo' - un soggetto 'assoluto' capace di possedere, nel modo della concezione classica del sapere, tutte le conoscenze.

Preciso che non so bene, per ora, verso dove conduce la via che propongo di imboccare. So che comporta dei rischi, ma sono convinto (non posso dire che lo so, mi contraddirei) che non ci sono alternative. Promuovere una società della conoscenza come mondo in cui tutti sapranno domani decidere con cognizione di causa sui più svariati problemi della vita associata, che sempre più comportano il possesso di nozioni specialistiche, mi sembra una mistificazione ideologica che rivela solo l'incapacità di ripensare il concetto stesso di conoscenza. Già oggi succede sempre più spesso che quando si tratta di decisioni che implicano il possesso di simili nozioni, noi ci affidiamo a esperti che stimiamo e di cui abbiamo fiducia per un insieme di ragioni che non hanno direttamente da fare con la valutazione (di cui non saremmo capaci) della loro competenza specifica. Le coppie di concetti che si mettono qui in campo si sviluppano sempre a partire dalla distinzione tra pensare e conoscere, e arrivano per esempio a quella tra tecnica e politica, tra economia ed etica, tra 'amicizia' e 'verità' (contro il detto tradizionale 'amico Platone, ma più amica la verità', non saremo qui in una situazione simmetricamente opposta? La verità che riconosco e posso riconoscere, su molti terreni 'specialistici', è solo quella che mi viene detta da chi sento 'già' come amico).

È in riferimento a osservazioni come queste che diventa meno scandaloso parlare di una società del loisir e del gioco come sola possibile attuazione dell'ideale di una società della conoscenza. Tenendo presenti i tratti del concetto di gioco su cui ho richiamato l'attenzione prima: quelli della 'condivisione' e della spontaneità, dunque anche del coinvolgimento affettivo. In concreto, significa che nel nostro futuro c'è un sapere che nessuno individualmente sarà in grado di possedere; e cioè che in sempre più vasti settori della vita individuale e associata dovremo 'affidarci' a qualcun altro. Oggi questo vale ormai per la nostra stessa sopravvivenza fisica: se voglio fare un 'testamento biologico' che mi permetta di morire con dignità, chiedendo che in certe condizioni mi si lasci, o mi si faccia, morire, devo affidarmi a qualcuno di mia fiducia che attui questa mia volontà; e anche se non sottoscrivo un simile testamento, mi affido implicitamente non alla natura, ma ai medici, alla medicina sociale vigente, ancora a qualcuno, magari solo più anonimo e non per questo meno affidabile.

La forma socialmente più generale e visibile di un simile affidamento è in definitiva la democrazia politica. È vero che quando esercito il mio diritto di cittadino elettore scelgo tra programmi politici esplicitamente formulati; ma in essi non vado mai oltre un certo grado di conoscenza, il contratto politico che sottoscrivo con i miei rappresentanti parlamentari è un po' come quello delle compagnie di assicurazione, contiene molte clausole scritte in corpo minore; tanto che sempre più spesso mi occorre un broker, un esperto che mi consigli quale sia la polizza più conveniente o addirittura, ormai, persino la compagnia telefonica che mi offre maggiori vantaggi. Una ragione illuministicamente vigile dirà che in tal modo si abdica alla libertà; ma si tratta appunto di prendere sul serio le trasformazioni - che proprio la scienza e la tecnologia hanno prodotto - del concetto stesso di conoscenza, di verità, di libertà. La democrazia e la libertà politica non si realizzeranno mai come competenza scientifica diffusa, ma come possibilità per ciascuno di scegliersi gli 'esperti' da cui vuol farsi guidare, e di sceglierli in base a una più complessa affinità che non è esagerato chiamare 'esistenziale'. Riconoscere questo significherà cedere totalmente a una democrazia dove il carisma dei 'capi', per lo più costruiti dai media, e la forza degli slogan, soppianta totalmente il dibattito razionale? Siamo consapevoli del rischio; ma, anche in società meno mediatizzate della nostra, la purezza razionale del dibattito politico, là dove si dava, era profondamente condizionata da appartenenze, amicizie, 'affidamenti'; forse tutto ciò era solo ideologicamente mascherato, come sapeva bene Marx. In democrazia ne siamo finalmente consapevoli, non solo negativamente in quanto siamo divenuti più scettici circa la possibilità di scegliere 'razionalmente' la via vera; ma anche in quanto siamo sempre più 'oggettivamente' chiamati a concepire e vivere l'esistenza sociale come esercizio di amicizia in cui consiste l'unica possibile essenza della stessa civiltà.

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In memoriam

Gianni Vattimo nacque a Torino il 4 gennaio del 1936 ed è scomparso lo scorso 19 settembre 2023.

Filosofo italiano tra i più autorevoli, dal 2008 era docente emerito di Filosofia teoretica all'Università di Torino, dove aveva insegnato dal 1964. S'era laureato nel 1954 con il suo mentore, Luigi Pareyson, con una tesi sul concetto del 'fare' in Aristotele.

È stato un grande studioso di Martin Heidegger e del suo allievo Hans-Georg Gadamer, che aveva conosciuto e approfondito, per sua ammissione, attraverso lo studio delle opere di Nietzsche. Introdusse, all'interno della corrente filosofica del relativismo, il cosiddetto 'pensiero debole', che si contrapponeva alle categorie forti e al tradizionalismo, caratterizzandosi con la critica a ogni prospettiva filosofica o politica che intenda presentarsi come definitiva. Alla metafisica tradizionale assertiva sicuramente preferì la filosofia dell'interpretazione, ovvero la possibilità che non ci sia una sola verità. Si avvicinò al comunismo, anche in questa ottica, come ricorda il filosofo Maurizio Ferraris nell'articolo Vattimo, nemico dei dogmi: nel comunismo infatti

cercava una dottrina di riscatto e di fratellanza per i diseredati, per gli ultimi. Come scrisse una volta, ci vedeva l'esito necessario del pensiero debole, che doveva convertirsi in pensiero dei deboli. È tuttavia importante osservare che l'adesione a questo comunismo ideale ebbe luogo in Vattimo solo dopo la conclusione della parabola storica del comunismo reale, e questo in fondo per lo stesso motivo che lo spinse a riaccostarsi al cattolicesimo.

Oltre a Luigi Pareyson, del resto, tra le principali fonti di ispirazioni per la formazione culturale e filosofica di Vattimo vi furono Jacques Maritain, Emmanuel Mounier e Georges Bernanos.

La filosofia ermeneutica di Vattimo, semplificata spesso nello slogan di successo 'pensiero debole', trovava il nucleo ispiratore assai significativo nel cristianesimo, il cui Dio si incarna nell'uomo, si fa debole per offrire un messaggio di verità e carità. Dal cristianesimo, frutto di una fede giovanile via via sempre più ripresa e ravvivata nella matura età, trasse le domande esistenziali della sua ricerca filosofica e, se non le risposte ultime, i significati persuasivi e gli interrogativi che arricchivano il suo pensare. Il cattolicesimo era visto da Vattimo prima di tutto come una tradizione e un modo di vita, ben più che come un sistema di dogmi positivi e di credenze assolute. Appariva, insomma, come la religione storica per eccellenza, quella più adatta a orientare l'umanità dopo il trauma della morte di Dio. E Vattimo su questo seguì la lezione indicata principalmente dai filosofi cristiani del Novecento, in primis dal suo maestro Pareyson: capire a fondo la tragedia della morte di Dio e, dunque, restaurare in qualche modo la sua presenza non più nel suo trionfo, quanto nella sua caduta. Su questo tema riflette il suo volume-confessione del 1996, edito da Garzanti, Credere di credere(più avanti negli anni, anche la sua conferenza al Festival della Filosofia nel 2007, dal titolo Il futuro della religione).

Non si può non ricordare che Gianni Vattimo fu anche autore di programmi culturali in televisione sui canali Rai. Iniziò proprio lavorando alla trasmissione Orizzonti, insieme a Umberto Eco (anch'egli laureatosi nello stesso periodo di Vattimo con il professor Pareyson, con una tesi su San Tommaso d'Aquino).

Collaborò con numerosi giornali italiani e stranieri. Ha fatto parte di diversi partiti, tra cui il Partito Radicale, i Democratici di Sinistra e i Comunisti Italiani. È stato eletto due volte al Parlamento Europeo, con i Democratici di Sinistra nel 1999 e con l'Italia dei Valori nel 2009.

Sull'amore per i libri, sulla lettura e sulla letteratura come strumenti per trovare addirittura il senso della vita, segnaliamo un'intervista di Gianni Vattimo ad Alessandro Baricco nel programma televisivo Pickwick del 1994. Qui il filosofo riflette sul complesso rapporto con la 'letteratura edificante', quella letteratura che si presenta come manuale di vita. Sostiene di diffidare dei libri - anche dei romanzi - che pretendono di dare indicazioni dirette sul modo di vivere; preferisce la 'letteratura secondaria', la 'letteratura su', la letteratura che predilige i commenti. I romanzi, le poesie, quando contengono troppo direttamente delle lezioni di vita sono facilmente banalizzabili. Da vero filosofo, infatti, sostiene che la costruzione interpretativa risulta tanto più edificante quanto più si riempie di contenuti nell'interpretazione delle cose che sono state date.

La grande filosofia può diventare un canale di collegamento con la narrativa proprio grazie alla costruzione di una dimensione edificante, di opere di consolazione e non opere di istruzioni: libri che non servono a cambiare la vita, ma forse a modificare gli atteggiamenti, ad allargare il panorama spirituale, legando le proprie esperienze a un numero sempre crescente di esperienze dell'umanità, con l'obiettivo non di risolvere, ma di 'reggere', 'mettere in sicurezza', affrontare la vita e le sue difficoltà.

La filosofia spesso tende a essere una scienza troppo specialistica; per questo Vattimo crede nel valore della filosofia quando riesce a dialogare con la poesia e con la letteratura. Solo allora ci insegna a vivere interpretando, distaccandoci un poco dall'individualità più angustiata, riuscendo a relativizzare le vite in un'oscillazione sopportabile tra gioie e dolori.

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Dal sito della biblioteca:

- Minerva Eventi: archivio 2017 [materiali dell'evento "Scienza e umanesimo: un'alleanza?" del 27 e 28 novembre 2017]

In "MinervaWeb" leggi anche:

- Indice generale per rubrica [nello Speciale "Scienza e umanesimo. I seminari della Biblioteca" altri interventi del seminario "Scienza e umanesimo: un'alleanza?"del 27 e 28 novembre 2017]

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