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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 75 (Nuova Serie), febbraio 2024

Volumi pubblicati dalla Biblioteca

Raccolti in volume gli atti del convegno "Nazione e Patria"

Nello scorso mese di dicembre è stato pubblicato, nella nuova collana "Minerva Studi" della Biblioteca del Senato, il volume Nazione e Patria. Idee da conservare (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2023) che raccoglie le relazioni ampliate, rivedute e corrette, presentate il 30 maggio 2023 al convegno organizzato dalla Commissione per la Biblioteca e l'Archivio storico del Senato presso la Sala Capitolare adiacente al Chiostro della Minerva. Il Presidente della Commissione, sen. Marcello Pera, nella sua Prefazione al volume ha sottolineato come dai saggi emerga «che nazione e patria non solo sono nozioni legittime [...] ma anche opportunità» (p. 8).

Nei paragrafi che seguono, proponiamo altrettanti estratti dagli atti del convegno, riproducendo i primi paragrafi degli interventi di Alessandro Campi, A cosa serve la nazione? (p. 45), Giovanni Orsina, Nazione e politica nell'Europa del Dopoguerra (p. 81), Dino Cofrancesco, Nazione e liberalismo (p. 135).

[Il testo è riprodotto fedelmente dal volume, dunque non è stato adeguato alle norme redazionali di "MinervaWeb"].

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Alessandro Campi, A cosa serve la nazione?

Concetti e formule quali "nazione", "patria", "sovranità", "nazionalismo", "interesse nazionale" sono da alcuni anni nuovamente al centro del dibattito pubblico come anche della riflessione scientifica (dalla storia delle idee alle scienze sociali). L'ascesa elettorale, anche fuori dei confini europei, di movimenti e partiti cosiddetti "populisti" o "sovranisti", divenuti ormai attori di primo piano all'interno di molti sistemi politici democratici e sui quali esiste una letteratura al tempo stesso strabordante e largamente seriale, ha infatti coinciso - sulla base di un rapporto di causa-effetto difficile da determinare nella sua esatta concatenazione - con la crisi della globalizzazione e delle attese che quest'ultima aveva generato.

L'idea, per un lungo periodo largamente condivisa e quasi egemone a livello pubblicistico e nei discorsi ufficiali, di un mondo destinato ad essere sempre più integrato e omogeneo, nel quale i tradizionali confini politico-geografici sarebbero apparsi sempre più come qualcosa di anacronistico e anti-storico, ha progressivamente lasciato il posto ad una visione dello spazio politico globale nella quale si continua ad attribuire un ruolo dirimente agli Stati territoriali sovrani, alle appartenenze e identità culturali specifiche, al particolarismo linguistico e alle credenze religiose ereditate dal passato. La creazione di un mondo sempre più interconnesso, favorita senza dubbio dalla diffusione delle tecnologie (a partire da quelle digitali) e dall'intensificarsi degli scambi commerciali, produttivi e finanziari su scala planetaria, non si è dunque tradotta, come da alcuni auspicato, in una sua crescente unificazione dal punto di vista politico-istituzionale, valoriale o socio-culturale. Al tempo stesso, se è vero che l'esistenza di problemi (e paure) comuni all'intera umanità - dai cambiamenti climatici alle emergenze sanitarie legate ai fenomeni pandemici, dalla gestione delle fonti energetiche alla sicurezza alimentare - ha fatto maturare la consapevolezza che essi debbano essere affrontati, se si vuole risolverli, in modo solidale e cooperativo, è anche vero che la collaborazione in vista di obiettivi e interessi condivisi non esclude il permanere di punti di vista sul mondo (tali sono, a ben vedere, i sistemi culturali e valoriali collettivi) tra di loro assai diversi, talvolta persino fisiologicamente o inevitabilmente conflittuali.

Insomma, l'universo è ancora, culturalmente e politicamente, un pluriverso, all'interno del quale le differenze o specificità riferite al territorio, alla cultura, alla lingua, alle tradizioni e alle costumanze, alla religione e alle memorie storiche - vale a dire a tutti quegli elementi che vengono variamente elencati o presi in considerazione quando si tratta di spiegare il particolare significato del concetto di nazione rispetto ad altre forme di aggregazione collettiva - rappresentano qualcosa di ancora vitale nell'esperienza dei singoli e delle comunità.

Rispetto all'annuncio di una inevitabile (e, per molti osservatori e studiosi, persino auspicabile) "scomparsa delle nazioni", la cui espressione più famosa è certamente quella vergata dallo storico Eric Hobsbawm a conclusione del suo classico lavoro del 1983 sulle tradizioni nazionali come frutto di un grandioso lavoro di invenzione-manipolazione culturale finalizzato a stabilizzare il controllo dello Stato borghese sulle masse lavoratrici, sembra oggi più realistico riconoscere che l'idea di nazione, per come essa si è imposta sulla scena storica nel corso degli ultimi tre secoli, se da un lato ha conosciuto dei momenti anche profondi di crisi o eclisse, dall'altro ha sempre mantenuto integra la sua forza storica, anche se spesso in modo sotterraneo. Quella che oggi alcuni presentano come una risorgenza, o un ritorno non previsto (nonché foriero di nuovi pericoli e minacce), in realtà andrebbe meglio considerata come un originale esempio di persistenza nel tempo e nello spazio.

L'idea (politica) di nazione è dunque ancora oggi attuale. Ma ciò non significa - ecco il punto decisivo - che essa possa essere politicamente utilizzata e concettualmente declinata utilizzando gli strumenti d'analisi e i criteri interpretativi che sono stati a lungo impiegati da una schiera di dottrinari e studiosi. Come tutti i concetti o termini politici anche quello di nazione ha una natura storico-dinamica: la sua vitalità come formula d'aggregazione collettiva è dunque legata al modo con cui essa è riuscita ad adattarsi ai cambiamenti di contesto culturale e alle diverse contingenti storico-politiche. In altre parole, il modo con cui hanno pensato la nazione autori quali, ad esempio, Giuseppe Mazzini o Ernest Renan, Marcel Mauss o Roberto Michels, può rappresentare un punto di partenza o un riferimento sul piano ideale e concettuale, costituisce una sorta di retroterra linguistico-categoriale, ma non può essere proiettato tale e quale nel contesto odierno. L'idea di nazione merita dunque di essere riformulata a misura dei profondi cambiamenti che sono nel frattempo intervenuti nella scena politica internazionale, nella sensibilità collettiva e nell'immaginario sociale, nella sfera politico-istituzionale e nel modo di funzionare dei regimi politici.

[estratto dal paragrafo §1. Tramonto o eclisse del concetto di nazione?, ndr]

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Giovanni Orsina, Nazione e politica nell'Europa del Dopoguerra

L'odierno, rinnovato interesse per la nazione e la sua sovranità scaturisce dalla sensazione, diffusa in ampie fasce dell'opinione pubblica, che le liberaldemocrazie si siano indebolite eccessivamente e debbano ricostruirsi con urgenza una più solida struttura politica. Si ripensa la nazione, allora, perché si ritiene necessario riconsiderare la sostanza, l'identità, i confini della polis: il "ritorno della nazione" è collegato a un "ritorno del politico" che impone un riesame profondo degli assetti interni alle democrazie liberali.

Questa, in estrema sintesi, è la tesi che cercherò di dimostrare nelle pagine che seguono. Considererò quindi l'identità nazionale nelle sue connessioni con la dimensione politica, ossia come elemento fondante di un senso di appartenenza la cui rilevanza consiste, almeno in parte, nella capacità di legittimare un assetto istituzionale di natura pubblicistica che produca decisioni vincolanti per l'intera collettività. Non è affatto l'unico modo di pensare la nazione, questo - è soltanto il punto di vista che ho scelto in questa sede, fra i tanti possibili. Più in particolare ancora, considererò quale sia il nesso fra nazione e politica in un contesto liberaldemocratico. La questione, allora, non verte solo sulla politica, ma sulla politica per come la pensa e vive il liberalismo: qual è il giusto ruolo della politica in un ordine liberale? Ossia: quanto in un ordine liberale dev'essere affidato alla libertà degli individui, disciplinati dal diritto, impegnati sul mercato, strutturati in una società civile, e quanto dev'essere invece gestito autoritativamente dalle istituzioni pubbliche? Infine, adotterò un approccio storico, osservando in quale modo la questione sia venuta evolvendo in Europa occidentale dal 1945 a oggi. Il tempo e lo spazio esaminati introducono un'ultima variabile nel sistema: le identità politiche territoriali sovranazionali, l'atlantismo e l'europeismo. Il politico, quanto è passato e passa per queste linee, che trascendono almeno in parte lo Stato nazionale?

Il primo paragrafo di questo saggio considererà in quale modo, dopo il 1945, la ricostruzione dell'Europa occidentale si sia fondata su un equilibrio capace di contemperare i processi d'integrazione sovranazionale con la persistenza dello Stato nazione, la dimensione politica con quella economica. Il secondo paragrafo racconterà di come, a partire dai tardi anni Sessanta, questo equilibrio sia gradualmente venuto meno, lasciando spazio a un "regime storico liberale radicale" largamente depoliticizzato e almeno in prospettiva denazionalizzato, vigente il quale le promesse utopiche della modernità sono state affidate al diritto, all'economia e alla morale. Il terzo e ultimo paragrafo si concentrerà brevemente sugli ultimi quindici anni: sul montare di una prepotente ondata di protesta che qui viene interpretata come una conseguenza del parziale fallimento del regime storico liberale radicale e come una richiesta pressante di ripristino della dimensione politica - e, almeno in parte di conseguenza, di recupero della nazione.

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Dino Cofrancesco, Nazione e liberalismo

Il vero spartiacque epocale che divide il nostro tempo dal secolo scorso è il tramonto della "comunità politica", che nell'Europa continentale aveva assunto le forme di quello stato nazionale che fondava la nostra identità etico-sociale, facendo dell'appartenenza - del "noi" - quasi una necessità naturale e indiscussa. Oggi ci si vergogna quasi a parlare di "noi e loro", e i confini che delimitano i vari paesi e stati ci sembrano peggio che delimitazioni di proprietà, autentiche prigioni, che violano i diritti universali degli individui, ciascuno dei quali è sacro, irriducibile agli altri, in ciò che ha di singolare, e nello stesso tempo eguale a tutti gli altri, in quanto figlio di Dio o di una Natura, "madre benigna e pia", che le divisioni politiche, religiose, culturali ed economiche tendono a calpestare.

Assistiamo oggi all'incontro tra l'universalismo cristiano - si veda il messaggio paolino per il quale non ci sono più greci, ebrei, romani etc., giacché tutti possiamo essere redenti nel segno della Croce - e l'universalismo illuministico - per il quale gli Stati e le loro guerre non nascono dal "legno storto dell'Umanità" (come ancora pensava Kant, traducendo in termini laici l'idea del peccato originale), ma dagli appetiti di potenza di monarchi e di sacerdoti. Forse con una variante, non poco significativa: che, prima della secolarizzazione, erano gli illuministi che si legittimavano richiamandosi a un cristianesimo privo di superstizione mentre nella nostra epoca sono i cattolici che vogliono essere accettati da una società che vede le chiese sempre più vuote, richiamando le benemerenze acquisite con l'avere instillato nei cuori umani l'idea dell'eguaglianza.

Si tratta di un universalismo portato a guardare chi non ne condivide i valori alla stregua di un essere asociale - chiuso nel suo egoismo familistico, di classe, di nazione - per nulla disposto ad aprire le porte di casa a quanti sono privi del pane quotidiano. Ma soprattutto ci troviamo dinanzi alla santificazione dell'individualismo: sia dell'individualismo del mercato - gli uomini stanno tutti sullo stesso piano in quanto si scambiano utilità reperibili nell'intero pianeta - sia dell'individualismo dei diritti - gli uomini, in quanto tali, hanno le stesse libertà di movimento e debbono avere le stesse tutele giuridiche. L'economia (Adam Smith) e il diritto (i Lumi, Voltaire) hanno estromesso dal mondo umano la politica e hanno reso il diritto interno degli Stati un diritto inferiore, che deve retrocedere dinanzi a istanze etiche e umanitarie superiori. In altre parole, a fare le leggi dev'essere soprattutto Antigone nel senso che gli agrafoi nomoi impressi dagli dèi nel cuore umano vanno considerati come le norme primarie che invalidano le leggi di Creonte (sempre più tenuto sotto controllo) ogni volta che siano in contraddizione con esse. In tal modo vien meno il senso della tragedia antica che, come aveva visto genialmente Hegel, consisteva nel conflitto tra due ragioni, non tra una ragione e un torto

Questa filosofia della buona samaritana non è un parto della follia buonista che si sta impadronendo di tante persone (e soprattutto di quelle colte), ma è un portato della rivoluzione culturale che a macchia d'olio sta invadendo tutta l'area atlantica e, soprattutto, l'Italia, per diverse e complesse ragioni storiche.

Ci sarebbe da rallegrarsene se a farne le spese non fosse la capacità di guardare al mondo e alla storia in modo realistico, dimenticando che la "pianta uomo" affonda le sue radici nel passato e nella tradizione e che i suoi rami tanto più rigogliosi si protendono verso il cielo - cioè verso il progresso - quanto più robuste sono quelle radici. Gli uomini e le loro tribù sono corpo e anima, kratos ed ethos, comunità e società, egoismo e apertura al prossimo. Sottovalutare o ignorare bisogni e interessi non universalizzabili perché riguardano solo una famiglia, un territorio, un paese, significa esporsi alla reazione violenta e primitiva del rimosso. La grandezza dell'Occidente, non lo si ripeterà mai abbastanza, è consistita nell'arte di tenere in equilibrio (un equilibrio sempre precario) il particolare e l'universale, il momento economico e quello etico - per dirla col vecchio Croce - la materia e lo spirito. È agli imperi antichi, che hanno conquistato popoli e città - da quello informale ateniese a quello romano - che si deve la grande cultura di cui ancora ci nutriamo spiritualmente. La Francia diventata "grande potenza" grazie a Richelieu, ci ha dato il siècle de Louis XIV e, prima ancora, la Spagna il suo siglo de oro. Le grandi produzioni dello spirito nascono da una poderosa civitas che si traduce in humanitas e le guerre vittoriose, assieme all'egemonia politica, portano quella culturale - vedi l'invasione, peraltro spesso deprecata, di tutto ciò che viene dall'America, da Hollywood aljazz.

Si può sciogliere il "particolare" in un insieme più vasto (ad es., lo Stato nazionale in uno Stato europeo, federale o no) ma rimarrà sempre una realtà politica dura, irriducibile, che non potrà appartenere a tutti e che dovrà essere difesa da quanti bussano alla porta in nome del "diritto cosmopolitico". In un denso saggio sulle democrazie illiberali, Un'altra Europa, pubblicato sul "Foglio"il 4 agosto 2018, lo scienziato politico tedesco-americano Jan-Werner Mueller giustamente metteva in guardia dal populismo e dai suoi leader euro-orientali ma mostrava di non cogliere minimamente le ragioni del loro successo, ricercate, sostanzialmente, nell'abilità demagogica. Dalle degenerazioni di quelle che chiama le "democrazie danneggiate", a suo avviso, si esce solo rendendosi conto che lo Stato nazionale è incompatibile con la vera democrazia. Ne erano consapevoli i democratici cristiani che

storicamente hanno considerato la sovranità dello Stato-nazione con profonda diffidenza. In Italia e in Germania, in modo particolare, durante la seconda metà del XIX secolo, i cattolici erano molto scettici nei confronti dei nuovi stati nazionali unificati. Non è un caso che i promotori dell'integrazione europea durante gli anni Cinquanta fossero democratici cristiani che non riconoscevano alcun valore particolare allo Stato-nazione in quanto tale.

[estratto dal paragrafo §1. La filosofia della buona samaritana, ndr]

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